La fine dei centri commerciali americani

Negli Stati Uniti, per i centri commerciali è crisi: lo strapotere dei rivenditori online come Amazon, combinato ai dati delle vendite scadenti dei grandi magazzini, suggerisce che per i centri commerciali di periferia i giorni siano contati.
L’indebolimento delle vendite dei grandi magazzini non è una novità, ma risulta sempre più realistica la possibilità che contagi anche i centri commerciali in generale: i trader di Wall Street stanno infatti scommettendo sui fallimenti dei proprietari dei centri e sull’insolvenza dei debitori nel settore immobiliare.

Ma davvero i centri commerciali – un’icona americana – sono destinati a sparire, proprio negli Usa? O forse, per citare un’altra icona americana (lo scrittore Mark Twain) la situazione è stata «grandemente esagerata»? La verità potrebbe essere un po’ più sfumata.
La vita di un tipico centro commerciale di periferia comincia con l’acquisto di un appezzamento da parte di un costruttore immobiliare commerciale o di un fondo di investimento immobiliare. Durante la costruzione del centro commerciale, il costruttore deve trovare degli affittuari: catene di negozi e altri rivenditori, che firmino contratti di affitto a lungo termine.
Un classico centro commerciale comprende uno o più negozi cosiddetti ‘àncora’ e decine di piccoli rivenditori: i negozi àncora sono di solito famose catene di distribuzione come Nordstrom, Sears o Macy’s, che fungono da affittuari principali che attraggono il consumatore nel centro. L’importanza dei negozi àncora non va sottovalutata: non solo attirano molti consumatori, ma la loro presenza ha anche un effetto sulle vendite di tutti gli altri negozi del centro e costituiscono un’attrattiva per altri esercenti, che vorranno poi affittare gli spazi vicini.

CHIUSURA DEI GRANDI MAGAZZINI

Negli Usa, le vendite dei grandi magazzini sono in caduta da più di un decennio. Parlando di vendite annuali, secondo dati di US Census, il loro valore è caduto dai 232 miliardi di dollari del 2000 ai 155 miliardi del 2016: un calo del 33 per cento. Diverse grandi catene commerciali – come Macy’s, J.C. Penney e Sears – hanno annunciato la chiusura di numerosi negozi nel 2017: secondo la Jll Retail di Chicago, che fornisce consulenza sul mercato immobiliare, più di 324 grandi magazzini (pari a oltre 3.300 chilometri quadrati di superficie commerciale) diverranno vuoti quest’anno.

La situazione di Sears è particolarmente grave: in un documento indirizzato alla Commissione statunitense sulle Security e sul Commercio, Sears ha sollevato «forti dubbi» sulla propria «capacità di continuare l’attività di impresa»; Sears ha chiuso vari punti vendita – sia della sua controllata Kmart che dei negozi a marchio proprio – e ha venduto vari asset di valore, come il marchio di ferramenta Craftsman.
Le azioni di Sears hanno perso circa il 44 per cento del valore nel corso del 2016. Nello stesso periodo, anche le azioni di J.C. Penney sono cadute del 44 per cento, mentre quelle di Macy sono scese del 29 per cento e quelle di Kohl di circa il 14 per cento. Le azioni delle catene commerciali hanno rallentato sia il mercato nel complesso che il settore delle rivendite.

Le vendite del magazzino sono costantemente diminuite dal 2010. (Fonte: Censimento Usa)

Per fare un confronto, lo scorso anno il S&P Retail Select Index è sceso del 5 per cento, mentre l’indice S&P 500 è salito del 14 per cento.
Alcuni esperti ritengono che le recenti chiusure siano semplicemente l’effetto del naturale e necessario ridimensionamento dell’influenza dei grandi magazzini nel mercato americano. Gli Stati Uniti, infatti, dedicano più spazio di ogni altro Paese alle vendite dei grandi magazzini: secondo a relazione 2017 Retail Research Point of View di Jll Retail, «negli Usa, il 46 per cento della superficie affittabile nelle aree commerciali è dedicata ai grandi magazzini, rispetto al 27 per cento del Regno Unito».

GLI AVVOLTOI INIZIANO A VOLARE IN TONDO

Non solo i grandi magazzini e i commercianti, ma ovviamente anche i proprietari e gli operatori dei centri commerciali stanno stringendo la cinghia: gli investitori stanno scommettendo che le chiusure dei grandi magazzini in tutta l’America porteranno in rosso gli operatori dei centri commerciali, non più capaci di affittare gli spazi.

Simon Property Group Inc, che negli Usa è il più grande operatore di centri commerciali e il maggiore fondo di investimento per l’immobiliare, ha perso il 7 per cento nel valore delle azioni dall’inizio di quest’anno, e il 18 per cento nello scorso anno. Secondo il Financial Times, la compagnia ha anche il record in quantità d’azioni prestate agli short seller dal 2011, e questo indica che gli investitori scommettono con forza contro i suoi titoli.

E con le brutte notizie che si accumulano per i centri commerciali, una tendenza crescente tra i fondi speculativi e altri trader è di scommettere contro l’indebitamento immobiliare del settore commerciale, o contro i prestiti ottenuti da proprietari e operatori dei centri commerciali: scommettere contro il debito immobiliare vendendo allo scoperto le security coperte da ipoteca (Cmbs) o un indice di Cmbs (Cmbx), è un modo diretto di guadagnare dai fallimenti degli imprenditori commerciali senza esporsi alla volatilità dei mercati azionari. Un’alternativa alla vendita allo scoperto delle Cmbs o Cmbx è di acquistare credit default swap – o contratti simil-assicurativi – sui bond. Ma questi bond sono vulnerabili, perché i pagamenti degli interessi sono spesso sostenuti direttamente dal pagamento dell’affitto da parte dei locatari degli spazi nei centri commerciali, e naturalmente le chiusure dei punti vendita rendono più difficile l’adempienza, fino al fallimento.

Un articolo del Wall Street Journal conferma che i fondi speculativi, come Alder Jill Management, hanno alzato la posta contro questi bond, in una maniera simile alle scommesse al ribasso di alcuni trader contro il mercato dei mutui subprime prima della crisi finanziaria del 2008, come mostrato nel libro e nel film La grande scommessa.

NON SOLO e-COMMERCE

Dare la colpa del declino dei centri commerciali e dei grandi magazzini ai rivenditori online come Amazon – che la scorsa settimana ha annunciato un aumento di ricavi del 23 per cento nel primo trimestre – è facile, ma la vera situazione è un po’ più complessa.

Un articolo del Wall Street Journal afferma che Wells Fargo Securities ha studiato 72 centri commerciali ‘defunti’, molti dei quali sono stati costruiti nella prima metà degli anni 70, scoprendo che erano «stati travolti dai centri commerciali più grandi costruiti verso la fine degli anni 70 e i primi degli anni 90, che hanno sfruttato meglio gli spostamenti demografici e dei trasporti».
Lo studio di Wells Fargo sembra deporre a sfavore della tesi prevalente secondo cui la crisi dei centri commerciali sarebbe causata solo dai rivenditori online: buona parte dei fallimenti dei centri commerciali sono dovuti a cambiamenti demografici e socio-economici, come i trasferimenti in massa delle persone degli ultimi due decenni dagli Stati un tempo più industrializzati.

Oltre agli operatori di centri commerciali che si spostano in punti migliori, c’è il fatto che i negozi stanno cercando attivamente di cambiare il proprio modello di business: nella relazione di Simon Property Group sulle proprie entrate nel primo trimestre, si suggerisce che molti rivenditori abbiano investito troppo su internet e che alcuni stiano cominciando a spostarsi nel settore della rivendita ‘fisica’, puntando sul miglioramento dell’esperienza del cliente in negozio.
Commentando i risultati della compagnia nel primo trimestre con gli analisti di Wall Street, David E. Simon, Ceo di Simon Property, ha affermato: «Ci sono vari rivenditori online, puramente online, che secondo la mia modesta opinione non riusciranno a sostenere davvero il loro modello di business a meno di avere una presenza fisica».

Persino Amazon, il più grande rivenditore online, sta considerando di entrare nella rivendita fisica: ha già sperimentato alcuni negozi di libri e di gadget e recentemente ha provato i negozi di alimentari.

Inoltre scommettere sull’inadempienza dei debiti commerciali nell’immobiliare non è così sicuro come potrebbe apparire: è troppo semplicistico assumere che i proprietari e gli operatori dei centri commerciali se ne stiano con le mani in mano senza fare nulla di fronte alla morte del proprio business.
Wells Fargo ha infatti scoperto che quasi il 60 per cento dei centri commerciali ‘defunti’ si sono trasformati in altri tipi di proprietà, come aree commerciali a cielo aperto, complessi residenziali o industriali.

Per gli operatori di centri commerciali, a volte allontanarsi dai grandi magazzini può persino migliorare i profitti, come spiega la relazione di Jll: «Gli affitti pagati dai grandi magazzini àncora, storicamente sono sempre stati bassi. In molti casi, l’opportunità di ri-affittare lo spazio si trasforma in entrate maggiori, sempre provenienti dall’affitto, per il proprietario». In molti casi, è infatti capitato che rivenditori specializzati, ristoranti, negozi di alimentari e luoghi di intrattenimento si siano trasferiti in spazi che prima erano occupati dai grandi magazzini.
Nell’elegante The Galleria di Houston, per esempio, i ristoranti Fig & Olive e Nobu occuperanno presto il posto che apparteneva al negozio Saks Fifth Avenue; un cinema di Amc Theatres occuperà invece il posto di un grande magazzino di Saks Fifth Avenue a The Shop at Riverside, in Hackensack (New Jersey).

Come per molti altri settori colpiti dalla nuova rivoluzione industriale, quindi, il futuro dei centri commerciali americani dipende molto da quanto rapidamente sapranno adattarsi alla situazione e cambiare.

Per approfondire:

Articolo in inglese: Clouds Gathering Above America’s Shopping Malls

Traduzione di Vincenzo Cassano

 

 
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