Neuromarketing, gli smartphone possono leggere la mente?

Gli esperti di marketing sperano di capitalizzare sui dati biometrici capaci di rivelare sentimenti ignoti persino a noi stessi, o che preferiremmo tenere nascosti.

Il mondo del neuromarketing si avvicina a una svolta grazie agli ultimi modelli di smartphone e di accessori hi-tech: se nel passato era considerato un approccio ai limiti della credibilità, oggi la situazione sta cambiando, di pari passo ai problemi etici sollevati dalle nuove tecnologie.

TECNICHE E TECNOLOGIE

Il neuromarketing tenta di sviluppare campagne pubblicitarie e prodotti più efficaci sulla base delle risposte inconsce delle persone; ad esempio sottoponendo un soggetto a un elettroencefalogramma (Eeg), o a un imaging a risonanza magnetica del cervello (Mri), durante la visione di uno spot o di un prodotto, come nell’esperimento del 2004 finanziato dalla Pepsi: il test ha rilevato che il cervello reagisce in modo differente quando una bevanda viene identificata, ovvero si ha una testimonianza neurale del riconoscimento di uno specifico brand.

Al neuromarketing si affida il 10 per cento dei committenti del settore pubblicitario, e occupa l’1 per cento delle ricerche di mercato su scala internazionale, secondo un resoconto del 2016 della Lcc (Classificazione della Library of Congress), ma si prevede che la sua influenza raddoppi nei prossimi cinque anni. Gli esperti di neuromarketing affermano di utilizzare strumenti atti a sviluppare prodotti che trasmettano messaggi pubblicitari attraenti a livello inconscio, ma per i critici queste affermazioni sono piene d’inganni e pseudoscienza.

Al pari delle macchine della verità in grado di registrare impercettibili cambiamenti nella conduttività della pelle, strumenti come gli scanner cerebrali e gli Eeg possono cogliere dettagli nascosti, quali il flusso sanguigno nella corteccia o l’attività elettrica del cuoio capelluto.

I test sulle reattività forniscono indizi sulle preferenze subcoscienti, così, per esempio, una campagna politica che si avvalga delle tecniche di neuromarketing può identificare le parole e le frasi chiave per innescare reazioni positive nei potenziali elettori.
Ma per questo non è necessaria la presenza di grandi macchinari installati in ambienti specifici; il neuromarketing può, infatti, essere condotto anche online e in remoto: smartphone e smartwatch già contengono tecnologie utili per alcuni studi nel settore. Alcune aziende sostengono infatti di poter identificare i valori inconsciamente associati a un marchio semplicemente osservando il soggetto mentre utilizza un computer: in un esperimento dove ai partecipanti è chiesto di premere la tastiera o toccare il pad in risposta a immagini o messaggi, il tempo di reazione rivela le istintualità più profonde.

Entro cinque anni, secondo Gemma Calvert (professoressa presso la Nanyang Business School di Singapore e pioniera del neuromarketing) l’approccio online sarà il modello industriale standard per i test di collaudo e la realizzazione dei prototipi ma anche per lo sviluppo delle campagne e il design delle confezioni: «già oggi assistiamo alla diffusione di cellulari con funzioni incorporate di eye-tracking e misurazione biometrica». Giochi, applicazioni e messaggi promozionali saranno ottimizzati secondo feedback ricavati da indicatori inconsci, quali lo sguardo, il battito cardiaco e il tempo impiegato per un click.

Apple, nel 2016 ha comprato Emotient, una startup che utilizza l’intelligenza artificiale per analizzare le espressioni facciali e leggere le emozioni, e non è un caso quindi che manifesti l’intenzione di includere una videocamera 3D nell’iPhone, più efficace nel catturare i movimenti del viso.

Ma gli usi potenziali del neuromarketing sollevano preoccupazioni di carattere etico, cui nel 2011 la Francia ha risposto con il divieto di usare scansioni cerebrali per scopi pubblicitari.

ETICA E DIGNITÀ

James Garvey, autore di The Persuaders: The Hidden Industry that Wants to Change Your Mind, [I persuasori: l’industria nascosta che vuole cambiarti la mente, ndt], esprime la sua preoccupazione per l’incapacità dei nostri paradigmi morali di cogliere le implicazioni del neuromarketing: «Qui è in gioco la dignità umana. Trattiamo le persone come tali, con le loro speranze e desideri, o come oggetti suscettibili di manipolazione secondo la nostra comprensione dei meccanismi cerebrali? Centinaia di anni di ricerca, e usiamo i risultati per vendere panini».

Per Calvert e i sostenitori del neuromarketing, questo invece consente ai consumatori di avere accesso a una maggiore quantità di quel che desiderano, perché fornisce dati più esaustivi ai produttori.

Al pari di altri suoi colleghi, John Bashl, professore associato di Filosofia alla Northeastern University ed esperto di Neuroetica, non è particolarmente preoccupato dalla minaccia etica attuale, ma prende le distanze dalla giustificazione addotta dagli esperti di neuromarketing riguardo al poter offrire quello che non sapevamo di desiderare: «Si pensi all’atto di mentire: alcune bugie sono dannose anche se promuovono un atteggiamento corretto. Per spiegare cosa c’è di sbagliato nel mentire, un metodo consiste nell’evidenziarne la minaccia alle facoltà razionali del soggetto, privato di informazioni rilevanti che potrebbero influenzare la sua libera scelta sul comportamento da adottare».

Ma, ovviamente, hanno un peso anche i motivi dietro alle operazioni di neuromarketing: «Non si tratta di tentativi per far emergere i nostri desideri nascosti e soddisfarli, ma di sfruttare certi meccanismi per plasmare o instillare specifici bisogni e comportamenti».

Alcuni neuroscienziati come Karen Rommelfanger, professore associato di Neuroscienza e direttore del Programma di Neuroetica all’Emory University, sono scettici in merito alle reali possibilità delle tecniche attuali di influenzare il libero arbitrio.

La stessa etichetta ‘neuro’ è uno strumento di marketing, secondo Duncan Smith, direttore decisionale della Mindlab International. Alcune società pubblicitarie usano questa etichetta e le immagini cerebrali per sembrare più credibili, ma spesso mancano solide basi scientifiche: «molti dei progetti in cui ci viene richiesto l’Eeg sono attività di Pr travestite da ricerca». Le società pubblicitarie sfruttano quindi il neuromarketing solo per confermare i propri servizi di marketing tradizionale, a ulteriore riprova del loro eccellente approccio professionale.

Tuttavia anche i poli di ricerca sono ora interessati alla scansione delle immagini cerebrali, e per Smith, l’uso sempre più frequente in tale ambito ne aumenterà la percezione di credibilità.

Joe Devlin, capo di Psicologia Sperimentale all’University College di Londra, rassicura quanti temono che il neuromarketing eserciti una forma di coercizione sui consumatori: in alcune aree specifiche trae spunto da ricerche valide, ma gli stessi neuromarketer non comprendono appieno i limiti degli strumenti che usano. La scienza è ben lontana dallo svelare i misteri della mente, e ancor più dal manipolarla: «Non solo è impossibile ora: lo sarà sempre».

Traduzione di Alessio Penna

Articolo in inglese: Neuromarketing in the Age of iPhones 

 
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