Mes alla Cina? 400 mila posti di lavoro a rischio in Italia

In Europa si discute della possibilità di concedere alla Cina lo status di Economia di Mercato (Mes). L’eventualità è fortemente avversata dall’Italia, perché rischia di danneggiare pesantemente il nostro settore manifatturiero.
Inoltre vi sono gravi preoccupazioni per la situazione dei diritti umani e dello Stato di diritto, così come per le forti ingerenze statali nell’economia cinese.

Quando la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a dicembre 2001, il Protocollo di accesso ha stabilito un periodo di transizione, della durata di 15 anni (fino al 2016 appunto) prima dell’ottenimento del Mes. E alcune interpretazioni ritengono che allo scadere del periodo di transizione l’accesso sia automatico.

Tra i parlamentari europei che si stanno battendo con maggiore veemenza contro l’entrata della Cina nel Mes c’è la genovese Tiziana Beghin (M5S), membro della Commissione per il commercio internazionale.
Epoch Times ha intervistato l’onorevole Beghin per analizzare a fondo la questione.

Perché attualmente la Cina non è riconosciuta come economia di mercato? Quali sono i requisiti standard?

Anche a un occhio esterno, è chiaro che la Cina non può essere considerata un’economia di mercato, perché ha ancora un’economia basata su aiuti di Stato abbastanza pesanti.
L’Unione Europea ha fissato cinque criteri che la Cina dovrebbe rispettare per ottenere lo status. Attualmente ne rispetta solo uno (il secondo). Per cui non dovrebbe esserci nessun dubbio sul fatto che la Cina non possa essere un’economia di mercato. E infatti il dibattito non si concentra su questo: attualmente si sta cercando di capire come venga interpretato l’articolo 15 [del Protocollo di accesso all’Omc ndr], se esso, cioè, si applichi automaticamente o no.

Quali sarebbero le criticità e le ripercussioni del riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato?

La Commissione Europea non ha ritenuto di fare un impact assessment su questo. Uno studio indipendente però afferma che ci sarà un impatto piuttosto pesante sul settore manifatturiero: si parla di 400 mila posti di lavoro a rischio in Italia. È sufficiente parlare con gli operatori economici per capire che già oggi è difficile proteggersi dalla concorrenza sleale delle aziende cinesi.

Chi si oppone e chi è favorevole al riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina?

Non è una risposta facile da dare. Almeno apparentemente sono tutti d’accordo nel dire che la Cina non è un’economia di mercato. Alla prova dei conti, però, quando si tratta di produrre risoluzioni e così via, gli atteggiamenti rimangono ambigui.
L’Europa è divisa a metà, con nazioni soprattutto del Sud e in parte dell’Est, come la Polonia, che si basano ancora molto sul manifatturiero, e nazioni che hanno un’economia maggiormente basata sui servizi. Queste ultime hanno da guadagnarci. Fanno dichiarazioni di facciata, ma in realtà vedono di buon occhio l’entrata della Cina nel Mes.

Perché le economie basate su servizi ci guadagnano?

Se i prodotti di base costano meno, questo avvantaggia economie basate sui servizi.

Qual è il soggetto internazionale che ha l’autorità di riconoscere un Paese come economia di mercato?

Tutto dipende da come si muoveranno Consiglio e Commissione Europea: loro prenderanno concretamente la decisione. Noi [i parlamentari europei, ndr] abbiamo un importante ruolo nell’indicare un orientamento, ma decideranno loro.

Cosa cambia esattamente tra una Cina che non è nel Mes e una che lo è?

Con la Cina nel Mes sarà impossibile applicare misure anti-dumping che permettano un riequilibro sul piano della concorrenza imponendo dei dazi [alle importazioni dalla Cina, ndr].

Settimane fa, in occasione di un suo viaggio a Taiwan, lei ha pubblicato sui social un post su un caso di gravissima violazione dei diritti umani in Cina: il prelievo forzato di organi ai prigionieri di coscienza. Vuole commentare ulteriormente sulla questione?

È una delle questioni che sono passate dal nostro Parlamento, con una risoluzione nel 2013. Delle Ong hanno prodotto documentazione su questa pratica abbastanza aberrante di imprigionare persone, che sono perseguitati religiosi e di altro tipo, e parrebbe si arrivi anche all’espianto d’organi.
È un argomento a cui non viene dato particolare seguito, ma bisognerebbe farlo. Se le cose non fossero vere, sarebbe facile per la Cina smentirle fornendo documenti e dati, ma è stata preferita la strada del silenzio. È innegabile che anche in Cina la strada per i diritti umani, non solo per questo, ma anche per altre questioni, è ancora lunga.

Noi in Europa abbiamo la presunzione di essere i più evoluti sul piano dei diritti umani, delle libertà, della pace, e di questi valori. Siamo il mercato più appetibile del mondo, e dovremmo essere piuttosto noi ad adottare certi tipi di regole e a imporre i nostri standard.


Testo dell’intervista rivisto per brevità e chiarezza.

 
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