Lo Yemen sull’orlo del disastro

Lo Yemen è in uno Stato di crisi, tra carestie, terroristi che espandono la loro presenza nel Paese (al-Qaeda e Isis, tra gli altri), e governi esteri che si dividono tra chi combatte e chi finanzia i militanti locali. In passato, l’esercito americano aiutava a mantenere la sicurezza nel Paese, ma l’amministrazione Obama ha gradualmente messo fine agli interventi.

A marzo 2015, gli Stati Uniti hanno ritirato le loro ultime unità dal Paese, e gruppi come i ribelli Houthi, al-Qaeda e l’Isis hanno cominciato a mettere a dura prova la tenuta del Paese e la sua sicurezza. Da allora la situazione è andata ancora peggiorando. ReliefWeb, un servizio umanitario delle Nazioni Unite, afferma che i combattimenti stanno aumentando sul fronte occidentale: «La situazione della popolazione civile è grave, e milioni di persone rischiano di morire di fame». Secondo l’organizzazione, infatti, il 70 per cento degli yemeniti sopravvive grazie agli aiuti. Ma gli scontri hanno distrutto strade e infrastrutture, e gli ostacoli burocratici hanno reso difficili gli aiuti.
Con lo Yemen a rischio di grave carestia, il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha affermato: «Non c’è molto tempo per impedire questa catastrofe».

PARTE DI UN CONFLITTO PIÙ GRANDE

La situazione dello Yemen è legata ai conflitti più grandi dietro la questione siriana, secondo Robert J. Bunker, ricercatore presso l’Istituto degli Studi Strategici dello US Army War College. Secondo Bunker, l’Arabia Saudita e l’Iran si stanno «facendo coinvolgere in una lotta geopolitica tra sunniti e sciiti per l’influenza nel Medioriente, con Siria e Yemen che rappresentano solo due delle tante pedine che si scontrano».
Nello Yemen, gli Usa stanno sostenendo l’Arabia Saudita, e l’Iran sta sostenendo le forze di opposizione, inclusi i ribelli Houthi e i terroristi come al-Qaeda e Isis. A complicare ulteriormente la situazione, l’Isis combatte anche gli Houthi, mentre al-Qaeda cerca di reclutare nei suoi ranghi i miliziani dello Stato Islamico.
Le organizzazioni terroristiche hanno infatti operato nel Paese abbastanza a lungo da aver messo radici: a luglio 2015, secondo Vocativ, l’Isis affermava di aver stabilito un campo di addestramento nello Yemen, mostrando come prove fotografie dei suoi combattenti in addestramento.

Dall’altra parte, al-Qaeda mantiene da tempo una forte presenza nello Yemen, che è sede di ‘al Qaeda nella Penisola Arabica’ (Aqap), il suo gruppo affiliato più forte. «Tra gli Stati falliti, vincerebbe il primo premio – commenta Drew Berquist, esperto di antiterrorismo, riferendosi allo Yemen – È una situazione pericolosa. Noi [gli americani, ndt] ci siamo fatti indietro, e ora la nostra presenza sul territorio è molto più bassa di quello che servirebbe».
«Vediamo succedere questa cosa di continuo – continua Berquist – Se dai a certa gente tempo e spazio per fare piani e metterli in pratica, questa poi ottiene il controllo, e poi finisce per rappresentare una minaccia maggiore nei confronti dell’Occidente e di altri».

Il 29 gennaio, la Squadra 6 dei Navy Seal [gli incursori della Marina Usa, ndt] ha fatto irruzione in una base dei terroristi nello Yemen: è stata una delle poche operazioni su terra degli Usa nel Paese, e il primo raid anti-terrorismo condotto sotto il governo Trump.
In un’audizione del 7 febbraio, Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, ha affermato che l’operazione aveva lo scopo di raccogliere informazioni. La missione ha però incontrato degli ostacoli: l’incursore William ‘Ryan’ Owens è stato ucciso dai terroristi, e un aereo da 75 milioni di dollari è stato distrutto; la squadra, comunque, è riuscita a ottenere le informazioni per cui era stata inviata in missione.

Il presidente Trump ha elogiato il marinaio Owens, affermando, in un discorso del 28 febbraio dinanzi al Congresso americano: «Ryan è morto com’è vissuto, da guerriero e da eroe, combattendo contro il terrorismo per la sicurezza della nostra nazione».

Il Washington Times ha ricostruito la missione, spiegando come non fosse fallita (al contrario di quanto si credeva inizialmente): piuttosto, «il nemico era più pronto al combattimento di quanto ci si aspettasse» e alcune «donne in un edificio hanno sorpreso il commando sparando». Una casa all’interno della base dei terroristi, infatti, era riservata ai familiari di questi ultimi, e nei piani non era stata considerata pericolosa; le donne hanno invece aperto il fuoco contro i Seal, che a quel punto sono stati costretti a rispondere.

«Queste [missioni, ndr] non vanno sempre lisce», commenta Berquist. È solo che «la gente non lo viene sempre a sapere». Rispondendo alle critiche, ha poi affermato: «Penso che il punto sia che è stata la prima azione del genere sotto Trump, quindi è qualcosa che si può facilmente prendere fuori dal contesto per attaccarlo».

Subito dopo la missione, il governo yemenita avrebbe ritirato il permesso alle forze speciali statunitensi di condurre operazioni su terra contro i sospetti terroristi, secondo il New York Times che cita funzionari americani anonimi.
Il 14 marzo, la Cnn, citando a sua volta una fonte anonima, ha affermato che Trump avrebbe fornito al Pentagono il potere di organizzare dei raid in Somalia e Libia. Non è chiaro se questa disposizione comprenda il permesso per missioni su terra o si limiti agli attacchi con i droni.
Andando avanti, secondo Bunker è probabile che gli Usa continueranno a inviare missioni nello Yemen, per colpire i terroristi o per raccogliere informazioni chiave, ma non pensa che si arriverà alle operazioni su larga scala: «Esiste il potenziale per delle incursioni sporadiche delle forze speciali statunitensi in Yemen, per raggiungere obiettivi specifici e limitati, ma non penso che delle operazioni su terra su larga scala siano realistiche».

Articolo in inglese: Yemen Moves From Crisis to Brink of Disaster

Traduzione di Vincenzo Cassano

 

 
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