Arabia Saudita, il caro prezzo di dipendere dal petrolio

Gli occidentali hanno l’impressione che in quei Paesi del Medio Oriente che sono stabili, il petrolio è come se crescesse sugli alberi; per essere precisi, Paesi come l’Arabia Saudita galleggiano sul petrolio.

Nel 2008, il Paese aveva un surplus fiscale del 29,8 percento: in pratica il governo ricavava 1 dollaro e 30 per ogni dollaro speso. La monarchia saudita inoltre, è rimasta stabile per decenni, con disoccupazione pressoché inesistente, massicci avanzi commerciali e un debito pubblico pari all’1,4 percento del Pil alla fine del 2014. Come spesso accade, meglio di così non poteva andare e quindi tutto ha preso a peggiorare.

Secondo il think tank Gulf Intelligence, nel 2016 l’Arabia Saudita accumulerà un deficit fiscale di 84 milioni di dollari, pari al 13 percento del Pil. Di recente inoltre, il governo saudita ha fatto bail out nel sistema bancario con 5,3 miliardi di dollari e il maggiore istituto di credito del Paese (la Banca Nazionale Commerciale), attualmente ai minimi storici, è calata del 30 percento in un anno.

La ragione principale di questa crisi è il calo dei prezzi del petrolio, che priva il Paese della sua unica vera fonte di reddito, colpendo sia la spesa pubblica che l’acquisto di beni e servizi dall’estero.
Il prezzo del petrolio secondo l’indice Wti è sceso dal picco di 110 dollari al barile del 2013 ai 50 dollari attuali, troppo poco per sostenere la spesa pubblica; senza contare che la strategia di diversificare l’economia rispetto al petrolio è largamente in ritardo rispetto ai programmi.

Dato che nel Paese entrano sempre meno dollari grazie alla vendita del petrolio, l’Arabia Saudita sta pagando di più per importare beni e servizi rispetto a quanto guadagna dal greggio. Come risultato, il deficit della bilancia dei pagamenti correnti ha raggiunto i 28 miliardi di dollari nella prima metà dell’anno, una cifra lontana dai 40 miliardi di dollari di avanzo che sono stati raggiunti nel corso degli ultimi dieci anni.

Dal momento che per finanziare il commercio viene utilizzata una valuta forte, il riyal saudita (che attualmente è ancorato a un tasso di cambio fisso di 3,75 per dollaro) subisce la pressione degli speculatori che ‘scommettono’ su un’improvvisa rottura dell’ancoraggio al dollaro.

Jim Richards, autore del libro Le guerre della valuta, ha dichiarato a Agora Financial: «La forza del dollaro e il basso prezzo del petrolio stanno stritolando l’economia dell’Arabia Saudita e stanno causando ingenti perdite alle riserve del Paese. I loro bilanci sono in deficit, e inoltre, le riserve di valuta estera utilizzate per compensare le differenze stanno diminuendo progressivamente».

In effetti, gli arabi, grandi compratori di debito degli Stati Uniti in passato, quest’anno hanno ridotto il loro portafoglio dai 123 miliardi e 700 milioni di dollari di gennaio, ai 93 miliardi di agosto. Così come in Cina, il ricavato  viene utilizzato per difendere la valuta e ancorarsi al dollaro statunitense.

Richards parlava di una svalutazione del riyal gia dall’inizio del 2015 e ora continua a mantenere il proprio punto di vista: secondo l’esperto, l’Arabia non riuscirà a rimanere ancorata alla valuta statunitense. In un’intervista rilasciata a Epoch Times ha dichiarato infatti che «l’ancoraggio della valuta si sta per rompere».

IL DEBITO INCONTROLLATO

In pratica, l’Arabia sta pescando dalle proprie riserve di buoni del Tesoro statunitensi accumulati durante gli anni del boom del petrolio, ma c’è di più. Il Regno di Arabia Saudita di recente ha venduto 17,5 miliardi di dollari di moneta estera in bond, in quello che è stato il più grande ricollocamento del debito di un’economia emergente da sempre.

In merito, l’Istituto di finanza internazionale ha affermato che i Paesi produttori di petrolio «stanno spostandosi sempre più verso i mercati del debito (domestico e estero) per finanziare i loro deficit in aumento», e che, dal primo trimestre del 2015 a oggi, il rapporto fra deficit totale e Pil dell’Arabia Saudita è aumentato di più di 20 punti percentuali.
Di conseguenza, i contratti assicurativi sul debito saudita, una volta considerati fra i più sicuri al mondo, segnalano che attualmente il Paese ha la probabilità di default più alta di Messico o Brasile.

A essersi unite al governo, in questo esercizio di emissione del debito, ci sono le società private non finanziarie, i quali debiti sul Pil sono aumentati di 12 punti percentuali durante lo stesso periodo, e i nuclei famigliari, che hanno aggiunto 1,8 punti percentuali ai loro oneri del debito: i tassi più alti rispetto a ogni altro Paese.

Come ultima risorsa, la famiglia reale sta considerando di vendere parte dei gioielli della corona: Aramco, la società petrolifera nazionale del valore di 2 mila miliardi di dollari.

Sebbene la maggior parte degli analisti faccia coinvogliare i problemi dell’Arabia Saudita nel basso prezzo del petrolio, Jeffrey Snider, direttore delle strategie di investimento di Alhambra Investment Partners, li considera come parte di una carenza globale di dollari che interessa anche altre economie emergenti.
Il 26 settembre Snider ha scritto sul suo blog: «Il problema del Regno è il dollaro non il ryal. […] Nell’opinione generale, i problemi dell’Arabia Saudita sono dovuti esclusivamente al petrolio, e quindi chiaramente vengono considerati problemi loro».
Tuttavia «ogni problema finanziario del mondo [può essere, ndr] facilmente dedotto semplicemente riconoscendo ‘la scarsità di dollari’».

Snider ritiene che la liquidità del dollaro globale nel sistema-ombra delle banche sia stata contratta fin dalle crisi finanziarie e che ora stia causando problemi dalla Cina al Medio Oriente: «Riconoscere il dollaro per quello che è veramente e per come lega insieme tutte queste disparate circostanze, può dissolvere la nebbia della confusione che aleggia sulla realtà dei fatti, e non solo dei fatti relativi alla moneta e alla liquidità globale, ma anche di quelli relativi all’economia reale».

 

Articolo in inglese: Saudi Economic Woes Involve More Than Low Oil Price

Traduzione di Davide Fornasiero

 
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