Le mani della Cina sulle economie occidentali

Negli ultimi anni, i grandi gruppi cinesi hanno acquistato in Occidente il controllo di intere società. Solo nei primi tre mesi del 2016, ad esempio, i cinesi hanno speso circa 103 miliardi di dollari per le fusioni e le acquisizioni di importanti imprese negli Stati Uniti e in Europa. Mentre nell’anno precedente, la spesa totale per gli investimenti all’estero era stata di 107 miliardi di dollari.

L’interesse del regime cinese non è più rivolto solo ai progetti per il trasporto o per infrastrutture come ferrovie, porti o autostrade: oggi gli investitori cinesi stanno puntando soprattutto su aziende legate alla tecnologia, alle telecomunicazioni, all’alimentazione, ai servizi alberghieri, alle aree industriali e al consumo.


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PERCHÉ TANTO INTERESSE?

L’attenzione dei cinesi verso settori differenziati delle industrie straniere, corrisponde alla strategia adottata da Pechino, che mira a trasferire in Cina le innovazioni occidentali nei campi del commercio, della tecnologia e delle conoscenze, procurandosi così i mezzi che le permettano di competere con l’Occidente.
Tutto questo ha come obiettivo finale l’incremento della produzione industriale entro il 2025. È fondamentale quindi per le imprese cinesi associarsi a quelle occidentali, incrementando così il proprio numero di consumatori, e sfruttando nel contempo le tecnologie avanzate.

Le industrie in Cina stanno cercando inoltre di allontanarsi dal settore della produzione di base, per concentrarsi sulla fabbricazione di prodotti finiti di alta gamma. Di conseguenza, ogni fusione o acquisizione nei suddetti settori in Occidente, fornisce alle imprese cinesi l’occasione per raggiungere tali finalità.
Un altro motivo per cui le imprese, soprattutto quelle statali, vogliono investire all’estero, è rappresentato dal fatto che hanno quasi raggiunto il limite della crescita interna. Le aziende di regime, essendo sostenute da grandi investitori, hanno la capacità finanziaria di effettuare transazioni di notevole entità. E il rallentamento della crescita interna ha spinto le grandi corporation cinesi a rivolgersi all’estero.


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MATERIA DI RIFLESSIONE

C’è quindi un altro fattore che contribuisce a far aumentare gli investimenti cinesi all’estero: l’enorme quantità di fondi statali disponibili per le imprese che vogliono investire. Si pone dunque la questione di quanto sia (in)dipendente la corsa alle acquisizioni/fusioni all’estero, dalle reali intenzioni del regime cinese.
Nel 2018, l’amministrazione Usa ha imposto dazi per un totale di 50 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina. Dazi motivati dal costante furto di proprietà intellettuale perpetrato dal regime cinese, le cui aziende (tutte quelle cinesi, dato che di fatto tutti i gruppi cinesi sono in mano al Pcc) sottraggono con ogni mezzo competenze e know-how occidentali.
E quando si combina il sostegno finanziario del regime cinese col trasferimento di tecnologie occidentali, o con l’aumento degli investimenti all’estero della Cina, è di fondamentale importanza chiedersi quanto i due fenomeni siano dipendenti l’uno dall’altro.

L’INTERESSE DIMINUISCE

Per contro, nel 2018 si è verificata una diminuzione di acquisizioni cinesi. Questo è dovuto in gran parte al rafforzamento dei controlli sul capitale in Cina, e a normative sempre più restrittive sull’acquisizione di imprese tecnologiche statunitensi.
Nello stesso tempo, Pechino sta tentando di frenare la fuga di capitali dovuta alla crisi economica, e alla volatilità dello yuan. D’altro canto, gli Stati Uniti sanno che le tecnologie arrivano facilmente alla concorrenza sleale cinese attraverso delle numerose fusioni e acquisizioni. Per questo, l’amministrazione Trump ha bloccato parecchie acquisizioni da parte della Cina, in particolare nel settore tecnologico.
E l’aver concentrato l’attenzione sullo stretto legame tecnologia-economia-sicurezza nazionale è obiettivamente un punto a favore del governo guidato da Donald Trump.

 

Articolo in inglese: The Ups and Downs of Chinese Interest in Western Companies

Traduzione di Francesca Saba

 

 
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