La Nuova via della Seta e l’impero comunista cinese

Secondo quanto afferma Pechino, la ‘Nuova Via della Seta’ non avrebbe alcun fine politico o militare, e costituirebbe solo un impegno sul piano ‘civile’. In merito a queste affermazioni, tuttavia, i dubbi della comunità internazionale permangono.

E lo scetticismo sulle reali intenzioni del regime cinese, invece che attenuarsi, ha continuato a crescere quando, ad aprile, il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe, durante un incontro con un capo della marina pakistana, ha annunciato che Pechino è disposta a fornire «garanzie di sicurezza» per il suo principale progetto di investimento economico, noto anche come ‘One Belt One Road’ (Obor).
Il progetto Obor è stato annunciato nel 2013: comprende un investimento stimato tra i quattromila e gli ottomila miliardi di dollari, per la maggior parte impiegati in infrastrutture come strade e dighe, e coinvolge decine di Paesi in tutta l’Asia e persino in Africa.


Il leader cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin partecipano a un summit per l’iniziativa One Belt, One Road, presso l’International Conference Centre a Yanqi Lake, a Nord di Pechino, il 15 maggio 2017. (Lintao Zhang / AFP / Getty Immagini)(Lintao Zhang/AFP/Getty Images)

La Nuova Via della Seta attrae soprattutto i governi dei Paesi più piccoli, che non godono di sufficiente ricchezza e stabilità politica, o di quella reputazione solitamente richiesta a livello internazionale per la concessione dei prestiti. Tuttavia, il progetto è stato spesso accusato di incoraggiare la corruzione proprio in questi Paesi più deboli, minacciandone al contempo la democrazia, favorendo al tempo stesso più le aziende del regime cinese degli interessi locali.

Diversi esperti, analisti e cittadini dei Paesi che ricevono gli investimenti, temono infatti che – a differenza di quello che Pechino vuol far credere – l’Obor sia un vero e proprio tentativo del Pcc di dar vita a un blocco di potere internazionale, attraverso la ridistribuzione del proprio peso economico in nazioni più piccole e meno sviluppate, sovvertendone le istituzioni per servire gli interessi politici dell’autocrazia comunista.
Ma ancora più preoccupante è il fatto che altri regimi oppressivi, già economicamente legati alla Cina, appoggiandosi al suo sviluppo tecnologico possano adottare i metodi di ‘sorveglianza’ (o spionaggio) del regime comunista per i loro Paesi.

In Malesia, dove le imprese statali cinesi hanno investito oltre 30 miliardi di dollari in vari progetti   ̶̶̶  compresa una ferrovia costiera e un gasdotto   ̶̶̶  è stato eletto recentemente primo ministro il 92enne Mahathir Mohamad, che ha spodestato il partito al potere da sessant’anni.
Mohamad aveva dato alla propria campagna elettorale l’impronta dell’anti corruzione, alimentando scetticismo verso i grandi investimenti cinesi, tra cui la costosa iniziativa immobiliare ‘Forest City’, di cui la maggior parte degli acquirenti era cinese.

Il 16 maggio, il Financial Times ha citato le parole di Euben Paracuelles, economista della società giapponese Nomura Securities di Singapore, secondo cui l’elezione di Mahathir potrebbe portare a rivedere l’atteggiamento della Malesia nei confronti dell’influenza cinese: «È difficile dire se i progetti verranno cancellati ma, come minimo, potrebbero subire significativi ritardi».

STRATEGIA WIN WIN O REPRESSIONE AUTORIZZATA?

Il rallentamento della crescita del Pil, per il regime cinese si tradurrebbe in una maggiore instabilità politica e in crescenti disordini civili. Sfide interne, queste ultime, catalizzate peraltro dalle azioni intraprese dai governi stranieri: esempio calzante in questo senso è la pesante politica dei dazi sulle importazioni, proposta dal presidente Usa Donald Trump per correggere gli squilibri commerciali del passato, e al contempo tamponare la crescita della forza militare del Pcc. Tutto si riflette in un inasprimento delle relazioni tra Pechino e i Paesi limitrofi come Giappone, Vietnam e India.

Secondo Xie Tian, docente di business presso la University of South Carolina Aiken, il regime cinese sta spostando all’estero la sua sovracapacità produttiva e i suoi metodi di lavoro tutt’altro che ‘sicuri’, così da potersi rafforzare dal punto di vista geopolitico in tutta l’Asia: «Nei fatti, il Pcc sta esportando all’estero l’ideologia comunista e il suo sistema di governo comunista».
Col tempo, continua Xie, le nazioni più deboli – strette nell’abbraccio mortale dell’economia cinese – diventerebbero a tutti gli effetti Stati-vassallo di Pechino, consentendo così al Pcc di servirsi del loro aiuto per colpire l’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati  in Asia orientale. Inoltre, «espandendosi all’estero, il Pcc può alimentare la propria propaganda nazionalista nei confronti del popolo cinese».

Zeng Jianyuan, studioso di sviluppo nazionale presso la National Taiwan University a Taipei, crede che il regime cinese affronterà una crisi ambientale e di risorse, e quindi dei disordini interni: «Ora la Cina sta cercando di proseguire la sua espansione e il suo sviluppo […] Investendo nei Paesi sottosviluppati dell’Asia-Pacifico, che non hanno modo di estinguere i loro prestiti, il Pcc può garantire un controllo duraturo sulle risorse strategiche possedute da questi Paesi».

Nel sostenere una nazione partner di Obor con ingenti investimenti, Pechino può ottenere concessioni in caso di inadempienza del governo locale, come è successo allo Sri Lanka lo scorso dicembre: quando non è stato più in grado di pagare il debito di un miliardo e 500 mila dollari agli investitori cinesi, ha concesso in leasing il porto strategico di Hambantota, per 99 anni, a un’importante azienda cinese con sede a Hong Kong.
E poco importa che il governo dello Sri Lanka abbia assicurato che il porto non verrà utilizzato a scopo militare, perché le recenti dichiarazioni del ministro della difesa cinese Wei suggeriscono proprio il contrario: Pechino rimane aperta a ogni possibilità.

Altri Paesi, come il Laos, il Myanmar, le Filippine e il Pakistan [tutti con governi autoritari, ndr], hanno accettato ingenti prestiti dalla Cina. Le regioni in cui si trovano sono inoltre di grande interesse per il Pcc, come il Mar Cinese meridionale, dove le forze armate cinesi hanno accresciuto e consolidato la loro presenza in violazione dell’arbitrato internazionale.


Il porto di Gwadar, parte importante dell’iniziativa One Belt, One Road in Pakistan, il 4 ottobre 2017. (Amelie Herenstein/AFP/Getty Images)

Nell’area dell’Oceano Indiano, l’influenza del regime cinese in Paesi come Sri Lanka, Myanmar, Bangladesh e Malesia, minaccia la sicurezza geo-strategica dell’India. Il Pakistan, partner cinese di lunga data nonché potenza nucleare, è fortemente impegnato nei progetti Obor.

INFRASTRUTTURA AUTORITARIA

Durante la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica era a capo di un’alleanza di regimi comunisti e Stati satellite, tra loro ideologicamente connessi, in opposizione al mondo capitalista. Il Partito Comunista Cinese però, deve aver imparato una lezione dalla Storia e, capendo di non poter combattere una guerra ideologica con il resto del mondo, ammanta le proprie relazioni estere e obiettivi internazionali di buone maniere diplomatiche, pragmatismo e volontà di sviluppo.
Questo mentre la propaganda proveniente da fonti cinesi ed estere, ha per lungo tempo influito sull’approccio della Cina nei confronti della politica estera degli Stati Uniti che, come effettivi garanti del diritto e dell’ordine internazionale, sono stati accusati di egemonia e imperialismo.

E nel frattempo, la mancanza di trasparenza che accompagna i progetti di investimento cinesi, come la One Belt One Road, contribuisce a camuffare le reali intenzioni di Pechino, che sono in realtà di natura ideologica, strategica e militare.
Ma, alla fine del 20esimo secolo, era normale che nel mondo occidentale numerosi esperti e persone comuni custodissero la speranza di assistere a un inevitabile cambiamento di rotta nella politica della Cina comunista, dal momento che Il Pcc si era da tempo aperto al mondo libero attraverso una serie di riforme orientate al mercato.

Quindi, per tutti gli anni ’90 gli Stati Uniti hanno concesso alla Cina delle relazioni commerciali favorevoli, aiutandone la crescita economica e lo sviluppo tecnologico.
Ma, invece di liberalizzare ogni aspetto del Paese, il Pcc ha intensificato sistematicamente la repressione di dissidenti, minoranze etniche, gruppi religiosi, e delle libertà e dei diritti della società civile.

Allo stesso tempo però, quello che il Pcc chiama ‘socialismo dalle caratteristiche cinesi’   ̶ l’unione tra capitalismo e autocrazia   ̶ ha favorito una sistematica e dilagante corruzione, e gravi squilibri economici. Un’enorme bolla immobiliare e l’aumento del debito pubblico infatti, rappresentano una spada di Damocle finanziaria che incombe costantemente sull’economia cinese.
Inoltre, la preponderanza del capitale bloccato nelle imprese di proprietà statale (o strettamente legate al Partito), ha portato al Paese un’abnorme sovracapacità produttiva nel settore industriale.
La corruzione, poi, male endemico della politica totalitaria del Pcc, fa gonfiare gli investimenti previsti nel progetto Obor all’estero, dal momento che Pechino punta ai Paesi dove la corruzione, a causa dell’imminente morte delle istituzioni democratiche, è ormai dilagante.

Nel peggiore dei casi, il Pcc rischia l’isolamento internazionale e la stagnazione: la stessa sorte toccata all’Unione Sovietica durante gli ultimi giorni della Guerra Fredda, e prima del collasso economico e politico dell’Urss.

E precisamente nell’Asia centrale, appartenuta in passato all’Unione Sovietica, la presenza dell’Obor è stata associata alla corruzione delle élite locali. In un’analisi pubblicata lo scorso maggio dal South China Morning Post di Hong Kong, è spiegato come gli investitori cinesi accomapagnino i loro affari con tangenti.

Zeng Jianyuan, accademico di Taiwan, sostiene che il regime cinese preferirebbe avere come Paesi confinanti delle autocrazie facilmente corruttibili, piuttosto che democrazie pulite e indipendenti. «Per garantire la stabilità della sua autorità politica, il Pcc non vuole che i Paesi limitrofi sfidino il sistema autoritario o cadano vittime di ‘Rivoluzioni Colorate’, tutte cose che potrebbero influenzare il sentimento di massa anche in Cina   ̶ conclude Zeng   ̶ l’obiettivo del Pcc è tenere controllare la politica e l’economia dei propri vicini».

 

Articolo in inglese: The Authoritarian Model Behind China’s ‘One Belt, One Road’

Traduzione di Alessandro Starnoni

 
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