La guerra economica del regime cinese: rubare prima di combattere

di Amar Manzoor*

Quando un Paese decide di combattere una guerra industriale, lo fa in due tempi. In primo luogo deve potenziare le difese militari ed economiche, per essere in grado di difendere i propri interessi. In un secondo tempo, può iniziare ad attaccare sul piano strettamente industriale.
L’arma principale nell’attacco industriale è quella del settore manifatturiero, con cui invade i territori rimpiazzando i prodotti locali con i propri. L’invasione ha lo scopo di arricchirsi, impossessandosi dei settori produttivi dell’avversario, per controllarlo e obbligarlo a rispettare le proprie condizioni.

Affinché questa tattica sia efficace, uno Stato deve ingegnarsi, controbattere i colpi dei concorrenti e affrontare i periodi difficili, di recessione o di depressione economica. Inoltre, per trasferire la produzione e conquistare i mercati, deve inizialmente tenere i prezzi bassi, salvaguardando l’efficienza della produzione. Chi riesce in questa operazione, può sfidare la concorrenza, liberarsi degli avversari e, dopo aver acquisito il pieno controllo del mercato, dominare.

Il regime comunista cinese combatte da vent’anni questo genere di guerra. Dopo aver studiato il modello di impresa americano, ha creato le condizioni per indurre le aziende statunitensi e di altri Paesi industrializzati a spostare la produzione in Cina, cominciando col produrre piccoli articoli come bulloni, dadi, giocattoli e scarpe.
I bassi costi di produzione hanno attirato l’attenzione delle aziende, interessate ai maggiori utili e ai vantaggi per gli azionisti.
In breve, le industrie americane ed europee hanno iniziato ad affidare sempre più alla Cina la fabbricazione dei propri beni. Fino a giungere alla totale esternalizzazione.
Nello stesso tempo, oltre a contribuire all’aumento dei profitti degli azionisti, hanno ridotto i costi e l’impiego di risorse umane locali.

In tale situazione, i mercati di questi Paesi si sono trovati sempre più assoggettati alle pessime condizioni economiche imposte dalla Cina e, per essere competitivi, hanno dovuto rivolgersi alle più convenienti fabbriche cinesi, seguendo il loro modello più ‘vantaggioso’.
Negli Stati Uniti, interi settori economici, un tempo orgoglio americano dopo la Seconda Guerra mondiale, sono spariti: le loro attività sono state vendute per soddisfare le richieste degli azionisti, e di conseguenza la forza lavoro ha subito licenziamenti su licenziamenti.

Una volta compreso il modello di guerra industriale, Pechino lo ha sviluppato e diffuso. Seguendo l’esempio statale del furto di tecnologia, le imprese cinesi hanno iniziato a copiare aggressivamente i prodotti americani, le innovazioni, le strutture gestionali, i sistemi di formazione e tutto quello che poteva servire per riprodurre il modello del successo americano.
Ovviamente, il regime cinese ha applicato il programma di furto e imitazione in tutti i Paesi del pianeta, cosa che gli ha garantito la creazione di una potenza economica che funziona secondo proprie regole, e in grado di costringere i concorrenti a seguire le sue regole.

Ma, nella continua ricerca del profitto, la Cina cerca anche di introdurre i propri prodotti nel mercato estero. E così, mentre l’Occidente ha contribuito attivamente alla produzione di svariati beni in Cina, questa cerca di accedere ai consumatori occidentali, piazzando i propri prodotti nei principali Paesi. Per esempio, usando i grandi magazzini americani Wal-Mart per consegnare, valutare e vendere la merce a prezzi bassi, costringendo così la concorrenza a ricorrere a sua volta al mercato cinese per essere competitiva. Questo ha quindi incrementato l’affluenza in Cina di rivenditori americani, alla ricerca continua di costi sempre più bassi: è evidente l’uso della stessa strategia per i commercianti e per gli imprenditori.

Ma il concetto, peraltro già radicato nella mentalità americana, di vendere a meno per trarre maggiori profitti, ha finito per eliminare la manodopera americana stessa.
Il regime di Pechino ha condotto la propria guerra non solo negli Stati Uniti, ma anche in India, Giappone, Corea del Sud, Europa e in tutti quei Paesi a cui punta per stabilire il proprio dominio economico. Imprese e rivenditori hanno del resto accettato facilmente un’offerta a così buon mercato, al punto che l’invasione dell’industria cinese si è rivelata devastante per i produttori locali, per gli effetti di una concorrenza insostenibile.

Per ogni rivenditore che diceva: «Comprate prodotti locali, vendete prodotti locali», ce n’erano molti altri che dicevano: «Comprate prodotti cinesi, vendete prodotti locali». In una simile situazione di guerra industriale, diventa difficile vincere ogni battaglia, per effetto del terreno perduto. E, a quel punto, le aziende statunitensi, europee o di altri Paesi, devono affrontare non solo la Cina, ma anche il sistema che il gigante asiatico ha introdotto in Occidente, tramite la propria struttura di domanda/offerta di beni.

La battaglia industriale è arrivata così al cuore del mondo occidentale, che l’ha accettata, spesso incoraggiando, completando e finanziando lo sviluppo economico della Cina. Purtroppo però, non si tratta semplicemente di incoraggiare lo sviluppo economico. L’economia alimenta gli eserciti, soprattutto nel caso della dittatura comunista cinese, che lascia minimo spazio tra pubblico e privato e costringe le imprese a soddisfare unicamente gli interessi del regime.

Più il Partito Comunista Cinese vince nella guerra industriale, più accresce la propria potenza militare, rafforzata da tecnologie e materie prime acquisite con una politica depredatoria di pirateria economica. Queste ‘risorse’ sono infatti ottenute con l’ormai noto, sistematico furto di proprietà intellettuale e di tecnologia occidentali. Una situazione che non fa che aumentare il pericolo di una guerra vera.

*Amar Manzoor è l’autore del libro The Art of Industrial Warfare e del sistema 7 Tao sulla guerra industriale.

 

Articolo in inglese: The Chinese Regime Is Using Industrial Warfare to Fight Without Fighting

Traduzione di Francesca Saba

 

 

 
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