La filosofia del ‘Nuovo lavoro’: fai quello che «vuoi davvero fare»

Una vera alternativa al lavoro duro e che non diverte, c’è: ne è convinto il filosofo ottantaseienne Frithjof Bergmann, che in un’intervista al Tagesanzeiger ha spiegato che, prima di tutto, bisogna capire cosa si vuole realmente fare.

L’ex professore di Filosofia di origine germanica, che negli anni ’80 ha elaborato il suo concetto innovativo di lavoro, il ‘New Work’ [‘nuovo lavoro’, ndt], vive con modestia il successo dei suoi corsi, che tiene in America: «In realtà le persone non vengono commosse da me, ma da loro stesse, da quella parte di loro che si è atrofizzata dopo anni».

LAVORO STANCANTE SENZA LEGAME CON LA PROPRIA INTERIORITÀ

Il concetto di ‘nuovo lavoro’ è utilizzato anche nei seminari della rete ‘Xing’, ma quello che Bergmann vuole dire con questa espressione è completamente diverso: intende «che le persone non consumino sé stesse in un lavoro stipendiato, con il quale non hanno alcuna connessione interiore». Bergmann racconta di un seminario di Xing che illustrava le tecniche di leadership e le questioni organizzative, e «come le compagnie possano addomesticare e sfruttare i loro impiegati in modo più raffinato» e aggiunge: «Questa prospettiva non mi ha mai interessato».

ALTERNATIVA AL LICENZIAMENTO: 50 PERCENTO LAVORO, 50 PERCENTO RICERCA INTERIORE

Nel 1984 Bergmann ha fondato un centro del ‘Nuovo Lavoro’ a Flint, vicino a Detroit, e ricorda i primi casi in cui la sua idea è stata applicata con successo: agli inizi degli anni ‘70, la prima grande ondata dell’automazione aveva investito il settore delle automobili della città, a quel tempo Bergmann riuscì a convincere la General Motors «a lasciare che gli impiegati lavorassero per metà dell’anno, dando loro l’altra metà» da impiegare in qualcosa di più interessante ed entusiasmante.

L’obiettivo era lasciare che gli impiegati scoprissero cosa volessero fare davvero: uno di loro ha aperto con grande successo un Centro di yoga, un altro ha realizzato il suo sogno di scrivere, riuscendo anche a collaborare per il Wall Street Journal, e diventando autore di best seller. Questi operai, tuttavia, dovevano prima scoprire quello che «volevano veramente, veramente fare», per usare le parole di Bergmann: secondo lui, la maggior parte delle persone è «morta per tre quarti» molto prima che vada a risiedere effettivamente nella tomba.

Secondo il filosofo tedesco-americano, a cominciare dalla scuola si è tormentati dalla noia: si impara di tutto, ma niente su sé stessi, e si viene preparati a vivere una vita fatta di serietà: «In seguito, vanno a lavoro e lo vivono come una malattia cronica leggera che non li uccide ma li debilita, e un giorno devono ammettere a sé stessi di aver perso la propria identità o forse di non averla mai trovata».

LA STORIA DI BERGMANN

Il Professore racconta di aver avuto un’infanzia molto dura: pensava che sua madre fosse morta suicida, per annegamento – come lei stessa aveva scritto in una lettera d’addio – in realtà era stata portata in un campo di concentramento, dove era certa di morire e Bergmann venne a sapere in seguito che era riuscita a fuggire miracolosamente.

Anche suo padre, un pastore evangelico luterano, durante gli ultimi anni della guerra è finito in prigione, dove si è ammalato. All’età di dieci anni, Bergmann lavorava già duramente nella coltivazione dei campi, cosa che lo ha portato ad ammalarsi. Ma racconta che poi si è ripreso e «questo ha fatto sorgere il mio spirito guerriero».

A diciotto anni, mentre frequentava le scuole superiori, ha scritto un saggio sul modello di scuola che avrebbe voluto: un modello utopico «che rafforza e spinge avanti la nuova generazione, anzichè disciplinarla e riempirla di conoscenze». Ha vinto il primo premio: una borsa di studio e un soggiorno di un anno negli Usa, dove è rimasto per il resto della sua vita, e della sua carriera.

 

Articolo in tedesco: Beruf und Berufung – „Erschöpfende Arbeit“, oder Herausfinden was man „wirklich, wirklich tun will“

Traduzione di Vincenzo Cassano

 

 
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