La crisi del ‘made in China’ sanitario

Nel mezzo della pandemia da Covid-19, il regime di Pechino ha utilizzato la crisi come opportunità di business per esportare articoli sanitari e dispostivi di protezione personali.

Tuttavia un vasto numero di tamponi e maschere made in China si è rivelato di qualità scadente, contribuendo ad appannare ulteriormente l’immagine della Cina a livello mondiale. 

Il Partito Comunista Cinese (Pcc), del resto, ha negato le responsabilità nella diffusione del coronavirus e ha addirittura accusato altri Paesi di esserne all’origine. Contemporaneamente si è impegnato nella ‘diplomazia anti-epidemica delle mascherine’.

Test tampone difettosi

Il 25 agosto scorso, l’Agenzia di Salute Pubblica svedese ha annunciato che per circa 3 mila 700 persone si erano verificati dei falsi positivi imputabili a test tampone difettosi provenienti dalla Cina. I kit erano stati largamente distribuiti anche in altri Paesi. 

Il 27 aprile, il consigliere economico della Casa Bianca Peter Navarro ha accusato la Cina di «inviare negli Stati Uniti kit tampone per anticorpi di bassa qualità o addirittura contraffatti».

Lo stesso giorno, il Consiglio per le Ricerche Mediche in India ha chiesto al governo centrale di ritirare dal mercato i kit tampone anticorpi provenienti da due aziende cinesi – Wondfo Biotech e Livzon Diagnostic – perché «i risultati non erano soddisfacenti».

Mascherine difettose

Il 28 marzo, il ministro per la salute Olandese dichiarava di aver ricevuto un milione e 300 mila mascherine marchiate ‘KN95’ da un produttore cinese. Ma dopo alcune prove il ministero ha rilevato che queste mascherine «non si fermano sul viso adeguatamente e hanno filtri difettosi». Così riportava la televisione pubblica olandese NOS.
Parte delle forniture è stata distribuita agli ospedali. I dirigenti – che hanno ritirato immediatamente quasi metà delle mascherine – hanno affermato che le future spedizioni sarebbero state sottoposte a test ulteriori. 

La qualità delle mascherine ha avuto un impatto anche maggiore negli Stati Uniti. Il 3 aprile, a seguito di una grave penuria di mascherine N95, la Food and Drug Administration (Fda) ha rilasciato un’autorizzazione urgente per dispositivi respiratori filtranti prodotti in Cina, non approvati dalle autorità sanitarie. I dati mostrano che dal 1° al 5 maggio la Cina ha rifornito di oltre 6 milioni e 600 mila mascherine gli Stati Uniti.

Per motivi di sicurezza l’Fda ha condotto un secondo esame di queste mascherine ‘Made in China’. I risultati, pubblicati il 7 maggio, evidenziavano che circa il 60%  dei 67 diversi tipi di mascherine N95 importate non soddisfaceva gli standard di qualità. Lo stesso giorno l’Fda annunciava di aver ritirato ad oltre 60 aziende cinesi i permessi di esportazione negli Stati Uniti, lasciando autorizzate solo 14 società.

Il 31 marzo, in seguito alle pressioni internazionali, i dirigenti cinesi annunciavano che «i reagenti per tamponi, le mascherine, le tute protettive, i respiratori e i termometri a infrarossi destinati all’esportazione, devono essere certificati dai dipartimenti amministrativi statali per i prodotti sanitari ed adeguarsi agli standard di qualità della regione o del Paese importatore» 

Tuttavia queste misure ufficiali non hanno risolto del tutto i problemi di qualità del ‘Made in China’ in quanto la crisi dipende dalla corruzione del sistema economico cinese. E se la situazione non viene risolta, la crisi di qualità può riemergere in qualsiasi momento. La pandemia COVID-19 ha funzionato da mero catalizzatore. 

Riferisce il deputato Michael McCaul (R-Texas) in un articolo pubblicato su The Hill: «Pechino si è impegnata in una ‘diplomazia delle mascherine’ con l’invio di articoli sanitari in tutto il mondo, nel tentativo di accreditarsi come partner degno nella lotta contro il coronavirus e nella speranza che il mondo dimentichi che i fallimenti del Pcc sono causa della sofferenza mondiale».
«Naturalmente, la successiva propaganda ha evitato appositamente di menzionare quante di queste forniture erano difettose o come (secondo le testimonianze) avrebbero accumulato scorte mentre mentivano sulla diffusione del virus all’interno dei loro confini».

La produzione di tessuto non tessuto

Il tessuto soffiato a fusione è un tessuto non tessuto usato come materia prima per le mascherine. Quest’anno il prezzo per tonnellata del tessuto soffiato è aumentato di oltre 700 mila yuan dagli inziali 18.000 yuan e l’offerta non ha coperto la domanda. 

Secondo i media cinesi, tra il 1° febbraio e il 13 aprile di quest’anno queste imprese sono cresciute di 1.250 unità; il tasso di crescita è stato più del 4.500% rispetto allo stesso periodo del 2019. Allo stesso tempo, prodotti di qualità sub-ottimale negli showroom di tessuto non tessuto spingevano le autorità a chiudere tutte le produzioni per ‘aggiustamenti’.

Ambienti di lavoro non adeguati

La pandemia ha portato ad una scarsità di mascherine a livello mondiale. Ci sono indiscrezioni secondo le quali quando il Covid-19 ha iniziato a diffondersi in Asia, per tenere il passo alle richieste, è stata utilizzata carta igienica.

Secondo il media di Hong Kong Ming Pao, la gestione delle fabbriche di mascherine in Cina è oggi caotica. Molti commercianti promuovono i loro servizi attraverso WeChat o marketing da passaparola e gestiscono i processi di certificazione degli articoli sanitari. Le certificazioni di qualità industriale possono essere facilmente ottenute e con alcuni servizi del costo di 30 mila yuan (3.845 euro) si ottengono le certificazioni europee e americane. Il 60% delle fabbriche non ha laboratori asettici ma aree di produzione contaminate e non igienizzate. 

Spesso i macchinari produttivi sono immediatamente messi in funzione dopo essere arrivati negli stabilimenti, senza essere prima sanificati. Alcuni lavoratori non usano mascherine e guanti.

Il paese di Pengchang nell’hinterland di Xiantao, provincia dell’ Hubei, è conosciuto come la capitale del tessuto non tessuto. La produzione cittadina conta per il 60% del totale e per un quarto della quota di mercato mondiale. Tuttavia, le autorità locali hanno chiuso 273 piccole officine illegali nella cittadina e sequestrato oltre 46 milioni di mascherine non conformi, secondo quanto riportato dai media cinesi. 

Pratiche di business non etiche

A giudicare dall’attuale situazione economica cinese e dal calo nella qualità della produzione, il regime comunista ha favorito un sistema di corruzione. 

In effetti il Pcc è conscio del fatto che la bassa qualità è diventata un ostacolo ingombrante per i prodotti Made in China. Ha altresì disposto politiche nel tentativo di lanciare la ‘rivoluzione della qualità’. Negli anni 1992, 1999 e 2007, il Pcc ha tenuto tre conferenze  nazionali sulla ‘qualità del lavoro’. Il Consiglio di Stato del PCC ha promulgato il ‘Rapporto sulla Rinascita della Qualità 1996-2010’ e il ‘Rapporto sullo Sviluppo della Qualità 2011-2020’.

Dalla nomina di Xi Jinping, si sono tenute conferenze sulla ‘qualità del lavoro’ nel 2014, 2017 e 2019. Il 5 settembre 2017, il Consiglio di Stato ha pubblicato il rapporto ‘Pareri e Linee Guida sull’Attuazione delle Attività di Miglioramento della Qualità’.

Tuttavia questi documenti e queste politiche hanno fatto poca differenza, considerato che gli standard di qualità non sono migliorati nel corso degli anni. Nel 2007, Mattel – l’azienda di giocattoli statunitense – ha annunciato un massiccio richiamo di prodotti Made in China a causa dei livelli eccessivi di piombo nelle vernici. L’anno seguente, il produttore cinese di latte in polvere Sanlu Group ha annunciato invece un richiamo di alcuni dei suoi prodotti perché contaminati con il composto chimico tossico melammina. 

Giappone e Corea del Sud sono incorsi in simili problemi di qualità nel periodo della loro crescita tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Prima che le case automobilistiche giapponesi compissero sforzi per migliorare i propri prodotti, quando i costruttori giapponesi e coreani hanno reso per la prima volta disponibili le loro automobili a basso costo sul mercato statunitense la qualità è stata giudicata scadente. 

Con l’istituzione di un reparto di controllo qualità nel 1999 e aumentando costantemente gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) la sud coreana Hyundai ha imparato dagli errori dei costruttori giapponesi. Come risultato, le automobili giapponesi e coreane, negli ultimi anni hanno ottenuto riconoscimenti in tutto il mondo.

Il Pcc è senza speranze

Per il Pcc è impossibile realizzare miglioramenti simili a quanto realizzato da Giappone e Sud Corea nella produzione di automobili di qualità.

Quando il Pcc si trova di fronte ad una grave crisi, esso rifiuta di affrontare la crisi direttamente, finge di esserne vittima o scarica la colpa, dichiarando che la controparte sta ‘demonizzando la Cina’ o ‘facendo politica’. Il Pcc cerca capri espiatori e affronta i ‘colpevoli’. Contemporaneamente il regime gestisce l’opinione pubblica e reprime dissidenti e gole profonde.

Si crea,  in un regime totalitario, un circolo vizioso nel gestire le crisi. 

In quest’ottica non è arduo comprendere il destino di Zhao Lianhai, padre di un bambino che ha sviluppati calcoli renali nel 2008 dopo aver bevuto latte condensato contaminato. Zhao è il fondatore di ‘Kidney Stone Babies’, un gruppo che aiuta i genitori in cerca di risposte legali alle malattie dei loro bambini, dovute al latte contaminato con melammina.  

Nel 2010, è stato condannato a due anni e mezzo di prigione con l’accusa di ‘disturbo dell’ordine sociale’ per aver preso parte all’organizzazione di riunioni di genitori e per aver acconsentito ad interviste dei media. 

Dal momento che le esportazioni sono contingentate, la popolazione cinese è stata vittima in massima parte della crisi di qualità del ‘Made in China’. Con il mercato internazionale, soprattutto coi mercati regolamentati di Europa, Stati Uniti e Giappone, il Pcc sta più attento visto che i controlli di qualità sono molto più stringenti che sul mercato interno.

Questo determina un peculiare fenomeno dato dal fatto che in Cina le merci esportate, una volta  reimportate sul mercato interno, vendono di più di quelle locali.

Nonostante questa pratica vìola alle fondamenta i moderni principi di gestione della qualità, il PCC si comporta così da molti anni. Nel 2007 quando arrivò la prima crisi di qualità del ‘Made in China’ i dirigenti cinesi fornirono due insiemi di dati sugli indici di qualità dei prodotti. Uno sulla sicurezza alimentare nazionale cinese dell’85%, l’altro sugli alimentari esportati in oltre 200 paesi nei precedenti 5 anni a di oltre il 99%. Un divario di quasi il 15%. 

Questi dati rendevano evidente quanto il PCC non si curasse della propria popolazione. Slogan di regime quali ‘costruire il partito per il popolo, governare per il popolo’ per portare la gente a creare il ‘miracolo economico’, ‘creare una società mediamente prospera  a tutto tondo’ e ‘prosperità generale’ sono tutti senza senso.

Se ancora non sapete cosa sia il PCC, date un’occhiata a come il partito ha gestito il COVID-19 quando si è abbattuto per la prima volta a Wuhan nel 2019. La sua gestione raffazzonata ha trasformato un’epidemia in una pandemia e dispositivi di protezione individuale scadenti hanno fatto poca differenza nel salvare vite umane.

 

Wang He tiene il corsi di laurea in storia e legge ed è studioso del movimento internazionale comunista. È stato docente universitario e dirigente di una grande azienda privata in Cina. Wang ora vive in nord America e dal 2017 pubblica articoli sugli affari e sulle politiche correnti in Cina. 

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

Traduzione di Gaetano D’Aloia

 

Articolo in inglese: The ‘Made in China’ Quality Crisis

 
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