La ‘bomba’ del libro di Luca Palamara intervistato da Sallusti

Di Camilla Antonini
L’autrice dell’articolo, Camilla Antonini, si è laureata in Scienze dei beni culturali nel 2011 presso l’Università degli Studi di Milano e si è in seguito specializzata in Discipline Cinematografiche presso l’Università degli Studi di Torino. È inoltre diplomata al Conservatorio e negli ultimi anni si è occupata di critica cinematografica.

 

Mala tempora currunt.

Le dichiarazioni che il dottor Luca Palamara rilascia nel libro-intervista realizzato da Alessandro Sallusti, nel quale ripercorre gli eventi che lo hanno portato ad essere radiato nell’ottobre 2020 dalla magistratura, fanno capire a tutti che non è più il momento di aspettare. È il momento di agire.

È il momento di indignarsi.

Perché lo spaccato del mondo della giustizia che viene tratteggiato e che rincara (pesantemente) le sue dichiarazioni della primavera scorsa, dopo che su tv e giornali scoppiò il cosiddetto ‘caso Palamara’, non possono e non devono lasciare indifferenti.

L’ex magistrato non accettando di fungere da capro espiatorio, decide di ‘vuotare (in parte) il sacco’, forse per pulirsi la coscienza, forse per vendicarsi. O forse per far sapere all’opinione pubblica che il suo modo di agire non era il ‘Sistema Palamara’, bensì il ‘Sistema’.

Il sistema delle correnti.

Ora, che il sistema correntizio fosse prassi comune in magistratura era cosa nota. Che esso fosse la conditio sine qua non per consentire o meno ad un magistrato l’avanzamento di carriera è ben altra cosa.

La cupola eversiva che emerge dalle sue parole e che gestisce il potere ricorda in maniera inquietante La piovra (tanto che il rispettato magistrato Nino di Matteo addita questo modus operandi come mafioso) e mostra uno squallore etico e morale che al mondo della giustizia, che si vorrebbe apolitica e superpartes, non si può e non si deve perdonare.

E come se non bastasse la deprecabile prassi dell’oliato sistema delle correnti, Luca Palamara racconta un mondo politicizzato in cui i processi sono finalizzati a colpire una parte a scapito di un’altra, con l’allontanamento e l’emarginazione delle ‘schegge impazzite’, che agiscono in autonomia o che indagano persone, politici, potenti che non devono essere toccati. Si vedano le indagini di Luigi De Magistris che rischiano di mettere in crisi il governo Prodi che aveva da poco sconfitto Berlusconi alle urne nel 2006, quelle di Alfonso Sabella, di Henry John Woodcock, di Antonio Ingroia, messo al bando a seguito delle telefonate intercettate tra Napolitano e Mancino, ex vice presidente del Csm, coinvolto nell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, di Clementina Forleo sui ‘Furbetti del quartierino’ che coinvolge, tra gli altri, alcuni vertici del Pds: D’Alema, Fassino, Latorre. Perché come racconta Palamara (che ovviamente è espressione apicale del marcio del ‘Sistema’): «devi formare una classe di magistrati indottrinati e piazzarli nei posti strategici per incidere sulla vita politica non attraverso le leggi ma attraverso sentenze» perché «se sfidi il ‘Sistema’ sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto». «Perché il nemico è la non sinistra» e se un «cane sciolto» agendo in modo autonomo manda in tilt il ‘Sistema’, va distrutto. Perché «il potere delle procure a volte è quello di fare un’inchiesta partendo da una velina e di tirarla per le lunghe, altre di non farla pur davanti all’evidenza dei fatti concreti. Soprattutto se la grande stampa gira la testa dall’altra parte o minimizza».

Già. Perché «il ‘Sistema’ possiede tre armi. Una procura, un giornale amico e un partito che fa da spalla politica». Di bene in meglio… 

Per far comprendere ai lettori come sia possibile che la magistratura agisca in tal maniera, Luca Palamara racconta la sua carriera, dagli albori all’ascesa, dall’apice (è stato infatti il più giovane presidente, a soli 39 anni, dell’Associazione Nazionale Magistrati e membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura, il vertice organizzativo dell’ordine giudiziario, dal 2014 al 2018), fino alla caduta, iniziata nel 2017 con un’inchiesta della procura di Perugia, quando nel suo cellulare venne inserito un trojan, un virus informatico, che mise a nudo ogni sua conversazione, ogni sua chat, ogni suo incontro.

Da persona ambiziosa, racconta di essersi fin da subito reso conto che per poter ‘arrivare’ era necessaria una protezione, che trova inizialmente nella corrente di Magistratura democratica (la cosiddetta sinistra, «autoproclamatasi superiore dal punto di vista etico»), che gli permette l’ingresso nel ‘Sistema, per poi avvicinarsi alla corrente di Unità per la Costituzione. Spiega che attualmente sono quattro le correnti principali: Magistratura Democratica o Area (di sinistra), Unità per la Costituzione (di centro), Magistratura indipendente (conservatrice) e Autonomia e Indipendenza (di più recente formazione, nata dopo l’ascesa del MoVimento 5 Stelle). Aggiunge anche un dettaglio abbastanza squallido: la corrente Unicost è soprannominata nel mondo della magistratura ‘unità per la prostituzione’, «data la sua propensione al clientelismo e alla lottizzazione». Insomma, ‘il mercato delle vacche’, sempre per citare Nino di Matteo.

Spiega infatti che l’obiettivo del ‘Sistema’ è quello di accaparrarsi il neomagistrato, facendolo iscrivere alla propria corrente, dato che «non si va per curriculum, come si dovrebbe; si va per mera spartizione e un magistrato altrettanto bravo ma non iscritto a una corrente è fuori, non ha speranza che la sua domanda venga accolta». Da Massimo Giletti su La 7 nella primavera scorsa usò toni molto più accomodanti, dato che raccontò che il merito giocava comunque un ruolo importante. Evidentemente la sua recente radiazione dall’ordine giudiziario deve avergli fatto rivedere alcune precedenti posizioni.

Le pagine si susseguono con i racconti del ‘Buscetta dei magistrati’, come lo definisce Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, dandoci con questa definizione la conferma che il paragone con La piovra è decisamente azzeccato. Luca Palamara, stuzzicato da Sallusti, che sembra godersi una grossa rivincita dopo anni di accuse di servilismo a Berlusconi, rivela i metodi intimidatori del ‘Sistema’ che distrugge attraverso la figura del cecchino, il magistrato che non aderisce integralmente alla sacra dottrina.

Anche solo con una frase fuori posto.

Fa l’esempio di Simone Luerti, presidente dell’Anm nel 2008, durante il quarto governo Berlusconi, quando la magistratura non consente un’opposizione blanda al berlusconismo. Lo sfortunato magistrato, intervistato da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera «fa una sorta di apertura a Berlusconi sulla possibilità di riformare il Csm». Orrore. E parte la ‘purga’. Ma il ‘Sistema’ è scaltro e non può gettare la maschera e mostrare il suo vero volto. Ecco che i lettori vengono messi a conoscenza della figura del cecchino, che serve a far fuori le figure scomode (anche quelle più vincolate al ‘Sistema’ ma che commettono colpi di testa, voluti o accidentali). Serve un preteso. Serve un killer. Che emerge tra le carte sommerse dell’inchiesta Why Not (quella per cui era stato cacciato De Magistris!), che documenta di come Luerti ha intrattenuto rapporti con uno degli indagati, Antonio Saladino. E per punirlo a dovere si aggiunge che il magistrato apparteneva ad un’associazione laica che pratica la castità. Un’intrusione nella sua vita privata che lo porta dritto al tritacarne mediatico e fine dei giochi. Luerti si dimette.

E rincara Palamara: «il destinatario non è solo Luerti. È anche un avviso per chi sarà il suo successore: attenzione, chi sgarra paga», perché «nella magistratura vige un clima di terrore interno che non lascia spazio a deviazioni dalla linea concordata».

Fa anche altri esempi, sullo stesso filone delle dichiarazioni che non si devono fare. Come quelle di Antonio Sangermano che condusse assieme a Ilda Bocassini l’inchiesta ‘Ruby’. Quando nel 2015 la Cassazione scagionò Berlusconi, Sangermano dichiarò che solo il popolo aveva il diritto di giudicare Berlusconi sul piano politico e che espellerlo dal Senato, applicando retroattivamente la legge Severino fu una forzatura evidente della Costituzione. Apriti cielo! Parte il fuoco di fila e si chiedono le sue dimissioni.

L’ultimo esempio è un ‘pizzino’ giunto allo stesso Palamara nella moderna forma di e-mail, da Edmondo Bruti Liberati, nel 2011 procuratore di Milano. Durante gli ultimi mesi del governo Berlusconi, venne nominato ministro della giustizia Nitto Palma, ex magistrato e senatore di Forza Italia, ma soprattutto, testimone di nozze dello stesso Palamara. La suddetta mail invitava l’ex magistrato a marcare le distanze più di quanto non sarebbe strettamente necessario. Insomma: se sgarri sei fuori.

L’esempio più eclatante però resta forse quello di Nino di Matteo. Perché, si è capito, puoi anche essere Calamandrei, il padre del diritto, ma «se sei fuori da quelle stanze, se non entri nel ‘Sistema’. Puoi essere bravo fin che vuoi ma non vai da nessuna parte». Il magistrato vicino ad Antonio Ingroia, considerato per tutti i primi anni duemila il numero due per le indagini sulle stragi mafiose degli anni novanta, non ha mai lesinato dichiarazioni dalla portata epocale, come quelle che rilasciò ad Andrea Purgatori su La 7, ospite di Atlantide. Spiegò infatti che alla strage di Capaci che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della scorta parteciparono oltre a Cosa Nostra anche uomini estranei al clan mafioso. Questa frase gli costa l’immediata espulsione dalla Direzione Antimafia. A questo episodio si accompagna la mancata nomina al Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria), quando nel 2018 andò al potere il governo Giallo-Verde (MoVimento 5 Stelle e Lega). Il ministro della Giustizia Bonafede nominò al suo posto Francesco Basentini e Nino Di Matteo dichiarò che «i Capimafia, evidentemente, erano contrari alla mia nomina». Palamara, ovviamente, accusa il ‘Sistema’ (di cui lui è parte, è sempre bene ricordarlo) della sua mancata nomina, piuttosto che la mafia, dato che spiega che il capo del Dap svolge un ruolo chiave per quello che riguarda le informazioni captate nelle carceri e se durante un’intercettazione emerge l’ipotesi che un politico è colluso, è lui il primo a saperlo. Come affidare ad un uomo fuori dal ‘Sistema’ e dunque incontrollabile un potere così spropositato? A ciò si aggiungano le dichiarazioni di Michele Giarrusso, ex senatore 5 Stelle e ora nel Gruppo Misto che spiega ai canali di Vox Italia Tv, l’unica che abbia dato risalto in modo adeguato alla vicenda-Palamara, come la nomina del dott. Basentini possa essere letta nell’ottica del do ut des, dopo la disastrosa archiviazione delle indagini sull’Eni che vedevano indagati uomini molto importanti. Ma il suo è sicuramente complottismo.

Peraltro, come giustamente sottolinea l’avvocato Carlo Taormina, il ministro Bonafede non ha querelato Nino di Matteo per le pesantissime  accuse rivoltegli dal magistrato dopo la mancata nomina al DAP. Sarebbe stato del tutto legittimo dopo un’accusa del genere e invece nulla. Forse perché le rivolte nelle carceri dell’aprile scorso, che hanno portato alla morte di ben 13 persone e all’evasione di oltre 70 detenuti, sono state sedate con un’altra orrenda trattativa, tutta italiana, che ha portato, con la deprecabile Circolare 21, al rilascio di ben 62 mafiosi (la cui domanda di scarcerazione è arrivata direttamente dai direttori delle carceri, come ci ricorda il senatore Michele Giarrusso), tra cui Nitto Santapaola, il numero due della siciliana cosa nostra.

Eppure, per comprendere appieno il ruolo di Luca Palamara quale mediatore all’interno delle correnti, è necessario leggere le sue dichiarazioni riguardanti il caso della nave Diciotti e dell’attacco da parte della magistratura dell’allora ministro degli Interni del governo giallo-verde Matteo Salvini. La vicenda è cosa nota. Il quotidiano La verità nella primavera scorsa portò all’attenzione dell’opinione pubblica lo scambio di messaggi tra lo stesso Palamara e il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, nel quale i due dichiaravano di non vedere illeciti nell’agire del leader della Lega (che bloccò per alcuni giorni lo sbarco di alcuni migranti soccorsi in mare dalla nave Diciotti appunto) ma che fosse necessario attaccarlo comunque. Lo schema si ripete mutatis mutandis: il clima tra governo e magistratura è tornato quello di dieci anni prima (ai tempi dei governi Berlusconi) e «gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale» e quel governo deve cadere, spiega Palamara. In un modo o nell’altro. L’ex magistrato, nonostante l’azione collegiale della magistratura nell’attaccare Salvini, si dichiara non convinto dell’illecito e messaggia con Auriemma dicendogli che ha ragione a criticare Luigi Patronaggio (il procuratore di Agrigento che fa sbarcare gli immigrati) e nello stesso tempo scrive a quest’ultimo per manifestargli piena solidarietà per il suo gesto e che «siamo [la magistratura, ndr] tutti con te». Già. Perché per sua stessa ammissione «esistono tanti Palamara quanti ne servono per gestire situazioni complesse e delicate». La squallida mediazione che ha caratterizzato tutta la sua carriera si palesa nel suo duplice aspetto: in primis quella di bieco mediatore tra le correnti della magistratura, per piazzare nei posti giusti i magistrati giusti e quella di uomo di legge che contrappone la necessaria ‘terzietà’ per giudicare gli atti illeciti alla necessità di non andare contro al ‘Sistema’. E come si domanda Alfonso Sabella (sempre ai microfoni di Vox Italia Tv): come è possibile che l’uomo di legge sia eticamente superiore se il suo agire è subordinato alle leggi intrinseche del ‘Sistema’, che si nutre di preconcetti diktat e non della ‘terzietà’ necessaria atta a renderlo imparziale agli occhi della legge? Un’impasse dunque, se la legge non è più il fulcro dell’agire del magistrato. E la domanda sorge spontanea a questo punto: chi controlla i controllori?

Un ultimo esempio, tuttavia farà appieno comprendere come – secondo le accuse – la magistratura agisca collegialmente alla politica, all’interno di una democrazia ormai rappresentativa del gioco delle parti. La vicenda risale al dicembre 2010 e si inizia a parlare di un «possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini», all’epoca al governo durante l’ultimo di Berlusconi. Ebbene, Gianfranco Fini è accusato di riciclaggio, per una vendita sospetta al cognato Giancarlo Tulliani (che peraltro ora è latitante a Dubai) di una casa, parte del patrimonio di An, la famosa ‘casa di Montecarlo’. Ebbene, l’inchiesta lampo venne archiviata in tempi record. Fini si allontana da Berlusconi, si allea con la sinistra e il governo cade poco dopo. Ora, poiché l’inchiesta venne riaperta nel 2017, appare chiaro che l’allora procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, «non ha compiuto una corretta valutazione», per ammissione di Palamara.

Gli esempi che porta, si susseguono in un nauseante elenco che tocca gli ultimi vent’anni di storia italiana e che è volto a rafforzare la teoria secondo cui la magistratura abbia agito e continui ad agire impunemente, facendo cadere molte teste (e ben venga, dato che non si sono indubbiamente citati dei santi), ma lasciandone salde molte altre, che invece sarebbe stato doveroso indagare.

Ora, poiché al momento nessuna smentita è ancora arrivata rispetto alle sue parole e alle sue accuse e poiché l’informazione mainstream non ha dato a questi fatti il giusto peso, lasciando nell’ignoranza i cittadini che continuano ad accettare cose che normali non sono, sarebbe opportuno che il presidente della Repubblica, quale presidente del Csm intervenga e sciolga questo organo con dimissioni a catena, come auspica Carlo Taormina.

Anche perché, come sottolinea Palamara, «nei telefoni dei miei colleghi, ‘signori delle tessere’ c’è il resto della storia», ma apparentemente nessuno ha voglia di smuovere davvero le acque ed indagare altri personaggi di rilievo, aprendo un’indagine seria e non facendo pagare unicamente lui, permettendo al ‘Sistema’ di salvarsi.

E poiché la deprecabile prassi tutta italiana del ‘si cambi tutto perché nulla cambi’ appare inaccettabile per questioni legate al mondo della giustizia, che si integri la parte mancante del suo racconto e si vadano a colpire anche le prime file, poiché appare chiaro che Luca Palamara dispose per un certo periodo di tempo di un potere incommensurabile e abbia potuto decidere chi dovesse occupare un posto di rilievo.

Ma soprattutto, poiché l’Italia aspetta ancora molte risposte, come quelle relative all’inchiesta Stato-mafia e poiché la magistratura non può e non deve autoassolversi, appare necessario pretendere che si nomini una commissione d’inchiesta (che dovrebbe essere richiesta dallo stesso parlamento) che faccia chiarezza e che smantelli un sistema che appare indegnamente corrotto e che ponga fine una volta per tutte alla deprecabile prassi della commistione tra politica e magistratura. Che si smantelli la riforma verticistica della giustizia (che mette un potere eccessivo nelle mani dei capi-ufficio facilmente controllabili) e che al contrario la democratizzi e la stratifichi. Perché appare chiaro che l’unica soluzione percorribile è un potere diffuso e per tal motivo non soggetto a ricatti e a debiti di gratitudine, piuttosto che dover fare i conti con una democrazia bloccata dal connubio magistratura-politica e, purtroppo, mafia.

Perché molto probabilmente aveva ragione Montesquieu quando scriveva: «Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e con i colori della giustizia».

Inquietante.

Inaccettabile.

 

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

 
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