Kant e il piacere disinteressato nel Bello: un principio elevato che cura l’anima

Di Roger Kimball

La filosofia è colma di domande che sorgono spontanee, alle quali è difficile rispondere. Tra gli infiniti interrogativi, se ne può scegliere uno: cos’è la giustizia? Cos’è la virtù? Cos’è l’amore?

A molte di queste domande non si può rispondere. O almeno, non si può farlo in maniera proficua. Anche se si rispondesse, la spiegazione finirebbe per risultare vaga o troppo generica.

Quindi, la situazione non cambia con un’altra ricorrente domanda: cos’è l’arte?

Una volta sarebbe stato possibile rispondere a quest’ultima domanda, in maniera discretamente precisa. Oggigiorno, tuttavia, Andy Warhol sembra aver anticipato la definizione con questa sua affermazione: «L’arte è qualsiasi cosa che ti puoi permettere di fare, facendola franca». Certamente, la sua stessa carriera è una testimonianza dell’intensità di tale sentimento.

In altre parole, oggigiorno, la domanda ‘Cos’è l’arte?’ – assieme alle sue risposte moderne – può trovare il suo spazio dove un tempo ci sarebbe stato scritto, semmai, «qui ci sono i mostri».

Un giorno, forse, la vera arte, questo fondamento del nostro panorama culturale, sarà di nuovo portata dove merita, alla guida della nostra civiltà. Sebbene per il momento, quando ci si trova davanti alla domanda ‘cos’è l’arte?’, la risposta più prudente sembra essere quella di Cole Porter: «Tutto va bene».

Quindi mettiamo tra parentesi la domanda ‘Che cos’è l’arte?’, che ci lascia ancora tanti enigmi irrisolti.

Interessarsi all’arte

Per esempio, perché ci interessa così tanto l’arte?

Quello che ci interessa è inciso nelle pietre dei nostri musei, teatri e sale da concerto, impresso nelle pagine dei romanzi e nei volumi di poesia, sancito dalla deferenza – finanziaria, sociale e spirituale – che le istituzioni dell’arte comandano nella nostra società.

Tra l’altro, l’arte è un grande business, e un grande business significa tanti soldi, un argomento inequivocabile per prendere qualsiasi cosa sul serio.

Ma perché? L’arte non soddisfa alcun bisogno pratico, non è utile nella maniera in cui può esserlo un tribunale o un ospedale, una fattoria o un’officina. Eppure, investiamo nell’arte e nelle istituzioni che la rappresentano con enorme privilegio e prestigio. Perché? Perché a qualcosa di apparentemente inutile viene accordato un tale onore?

Una ragione, naturalmente, è che l’utilità nell’arte non è il nostro unico criterio di valore. Ci interessano molte cose che non sono strettamente ‘utili’. Infatti, per molte delle cose a cui teniamo di più, l’intera questione dell’utilità sembra piuttosto fuori luogo, una sorta di errore di categoria esistenziale.

Ma possiamo ancora chiederci: cosa c’è nell’arte, nell’esperienza estetica, che ci cattura così potentemente?

È stato versato molto inchiostro per cercare di rispondere a questa domanda.

La parola ‘estetica’ non è stata coniata – e la disciplina che essa designa non è nata – fino alla metà del 18esimo secolo, ma il fascino della bellezza è perenne.

Da Platone in poi, filosofi e artisti (e filosofi-artisti) hanno elogiato la bellezza come fonte di intimità spirituale e unità perduta.

Un problema di questa tendenza a rappresentare l’arte con un sentimento religioso non ancorato è che rende difficile tenere a fuoco le soddisfazioni native dell’arte.

La difficoltà è aggravata dal fatto che il piacere estetico comporta un sentimento di completezza che è facile scambiare per esaltazione religiosa. L’arte offre un balsamo per lo spirito, ma non è un balsamo religioso. Esattamente, che tipo di balsamo è?

Soddisfazione disinteressata

Un buon punto di partenza per cercare di rispondere a questa domanda è con alcune osservazioni del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804).

«Allettante» non è una parola che la maggior parte delle persone associa al lavoro di Kant. Ma la prima metà del suo libro Critica del Giudizio, che tratta della natura del giudizio estetico, è piena di osservazioni allettanti.

Kant vide che il fascino dell’esperienza estetica era sorprendentemente diverso dal fascino del piacere sensoriale, da un lato, e dalla soddisfazione che otteniamo dal bene, dalla morale o dalla materia, dall’altro.

Per prima cosa, sia per quanto riguarda il piacere sensoriale che il bene, la nostra soddisfazione è inestricabilmente legata all’interesse o alla cosa desiderata, vale a dire all’esistenza di qualsiasi cosa stia causando il piacere.

Quando abbiamo fame, una cena virtuale non va bene: vogliamo la carne e le patate.

Lo stesso vale per il bene: una morale virtuale non è morale.

Ma le cose vanno diversamente con il piacere estetico. C’è qualcosa di peculiarmente disimpegnato nel piacere estetico stesso.

Quando si tratta della nostra vita morale e sensoriale, ci viene costantemente ricordato che siamo creature incomplete e insoddisfatte: abbiamo fame e desideriamo mangiare, vediamo il bene e sappiamo che siamo carenti.

Ma quando giudichiamo qualcosa di bello, dice Kant, il piacere che proviamo in quel giudizio è idealmente una «soddisfazione del tutto disinteressata» (Vale la pena ricordare la differenza tra ‘disinteressato’ e ‘non interessato’, parole che sono spesso erroneamente confuse. Possiamo essere molto interessati nel coltivare una soddisfazione disinteressata).

La grande stranezza del giudizio estetico è che fornisce soddisfazione senza quella penalità o sofferenza imposta dal desiderio. Questo spiega sia il suo potere che il suo limite.

Il potere deriva dal sentimento di completezza e integrità che una soddisfazione disinteressata comporta. Il piacere senza desiderio è un piacere senza il macigno della mancanza.

La limitazione deriva dal fatto che, senza il peso generato dalla mancanza, il piacere estetico è anche slegato dalla realtà.

Proprio perché è disinteressato, c’è qualcosa di profondamente soggettivo nel piacere estetico. Si può anche dire che ciò di cui godiamo nel piacere estetico non è un oggetto ma il nostro stato d’animo. Kant ha parlato in questo contesto del «libero gioco dell’immaginazione e intelletto»; è ‘libero’ perché non è vincolato da interessi o desideri.

È curioso che nelle sue riflessioni sulla natura del giudizio estetico, Kant si interessi solo incidentalmente all’arte. Gli esempi di ‘bellezza pura’ che fornisce sono notoriamente banali: conchiglie, tappezzerie, fantasie musicali, ornamenti architettonici.

Ma Kant non stava cercando di fornire lezioni di apprezzamento dell’arte. Stava tentando di spiegare i meccanismi del gusto. Non sorprende che la Critica del giudizio sia diventata un importante documento teorico per coloro che sono interessati all’arte astratta: secondo Kant, la bellezza più pura era anche la più formale.

Un terreno comune nel Bello

C’è, tuttavia, un altro lato della discussione di Kant sulla bellezza. Questo ha a che fare con la dimensione morale del giudizio estetico.

Se il piacere che proviamo nel bello è soggettivo, sosteneva Kant, non è tuttavia soggettivo nello stesso modo in cui è soggettivo il piacere sensoriale. A una persona piace la bistecca ben cotta, a un’altra persona al sangue: questa è una semplice preferenza soggettiva.

Ma quando si tratta del bello, osserva Kant, ci aspettiamo un ampio accordo. E questo perché abbiamo fiducia nel fatto che il meccanismo del gusto – quel libero gioco dell’immaginazione e intelletto – fornisca un terreno comune di giudizio.

Non possiamo dimostrare che un dato oggetto è bello, perché il punto in questione non è l’oggetto ma lo stato d’animo che esso provoca. Tuttavia, dice Kant, «corteggiamo» l’accordo di tutti gli altri, «perché abbiamo per esso un terreno che è comune a tutti».

Il che significa che i giudizi sul bello sono in un certo senso soggettivi, ma in un altro senso esibiscono la nostra comune umanità.

Per concludere quindi, il sentimento di libertà e interezza che l’esperienza estetica impartisce non è quindi meramente privato, ma ci ricorda la nostra vocazione di esseri morali.

In questo contesto, Kant ha notoriamente parlato della bellezza come «il simbolo della moralità» perché nel piacere estetico, «la mente è resa cosciente di una certa nobilitazione ed elevazione». Così, sebbene il gusto sia «la facoltà di giudicare un oggetto […] con una soddisfazione del tutto disinteressata», esso è anche «in fondo una facoltà di giudicare l’illustrazione sensibile delle idee morali».

Sarebbe una forzatura della verità sostenere che la discussione di Kant nella Critica del giudizio sia chiarissima. Ma è certamente suggestiva. E non può forse Kant portarci più vicino al rispondere alla domanda ‘Che cos’è l’arte?’

Ma anche se sollevasse qualche dubbio sull’idea che «l’arte è qualsiasi cosa con cui puoi farla franca», allora il nostro tempo a riflettere sui suoi pensieri non sarebbe stato sprecato.

 

Roger Kimball è redattore ed editore di ‘The New Criterion’ ed editore di ‘Encounter Books’. Il suo libro più recente è ‘Who Rules? Sovereignty, Nationalism, and the Fate of Freedom in the 21st Century’.

Articolo in inglese: Why Art Isn’t ‘What You Can Get Away With’

 
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