L’«industria della pace» si è sbagliata sul Medio Oriente

Di Barbara Kay

Quando nel 2017 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha mantenuto la promessa di riconoscere Gerusalemme come capitale eterna di Israele e di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, la notizia è stata accolta con orrore a sinistra.

Per politici ed esperti, quella «strada» avrebbe portato a una violenta protesta araba. Tuttavia si è scoperto che alla maggior parte dei palestinesi non importava dove fosse situata l’ambasciata americana; il trasloco è avvenuto senza incidenti.

La sinistra ha opinioni fisse sul Medio Oriente. Sono convinti che non ci potrà mai essere pace nella regione fino a quando i palestinesi non otterranno la loro promessa di statualità, tra le altre affermazioni. Nel 2016, quando l’idea di una pace separata tra Israele e gli altri vicini arabi è stata discussa, l’allora Segretario di Stato John Kerry ha dichiarato con enfasi al Brooking Institute che «non ci sarà una pace separata tra Israele e il mondo arabo», fino a quando i palestinesi non saranno stati soddisfatti. Ma si sbagliava. Del resto, quando Trump ha riconosciuto Gerusalemme come la capitale israeliana, Kerry ha predetto che ci sarebbe stata «una grande esplosione nella regione».

Sarà imbarazzato oggi? Lo dovrebbe essere. Chi avrebbe mai pensato di sentire un ministro degli esteri arabo, in questo caso Khalid bin Ahmed Al Khalifa del Bahrain, dire: «Israele è storicamente parte di questo patrimonio di tutta questa regione, quindi il popolo ebraico ha un posto tra noi». Notate la parola «popolo», non «Stato», un deliberato ripudio dell’antisemitismo che ha influenzato il rifiuto arabo di Israele fino ad ora.

Gli accordi di Abramo, che normalizzano le relazioni senza precondizioni tra Israele e gli Stati del Golfo di Emirati Arabi Uniti e Bahrain, con anche molti altri Stati che dovrebbero seguirne l’esempio, sono stati uno schiaffo in faccia all’«industria della pace», una comunità estremista di accademici, agenti delle Ong, alleati dei media e istituti come il Canadian Institute for Conflict Resolution, tutti intrisi della mentalità di Kerry.

Se questi presunti esperti di pace si fossero effettivamente adoperati nella risoluzione dei conflitti con neutralità, sarebbero meritevoli di rispetto, ma quando si guarda da vicino il vasto dominio degli «studi sulla pace» nel mondo accademico si scopre che i loro propositi sono tutt’altro che disinteressati.

Gli studi sulla pace sono iniziati in uno spirito idealistico come risposta alla minaccia di un Armageddon nucleare durante la Guerra Fredda. Hanno sperimentato uno scatto di crescita in seguito alla straziante crisi missilistica cubana del 1962. L’angoscia per il Vietnam ha spinto a donazioni da fondazioni come l’Istituto per l’Ordine Mondiale (un nome un po’ inquietante), conferendo sicurezza accademica e rispettabilità politica al fiorente movimento.

Ma come in tanti altri programmi di «studio» americani – come gli studi di genere, quelli sull’essere bianchi, o sulle popolazioni indigene – l’ideologia comanda, e il «sapere» è una vetrina retorica che nasconde il messaggio centrale dell’autodistruzione occidentale. Gli studenti studiano alacremente gli esempi di «imperialismo» occidentale, ma non tanto quelli del comunismo o dell’Islam politico trionfalista. Gli studi sulla pace non approvano le «guerre giuste» o di autodifesa, se il Paese che si difende è Israele o gli Stati Uniti. Non è la violenza che condannano, ma solo la violenza perpetrata dai potenti. La violenza come strategia impiegata dai «privi di potere» è ammissibile.

Nel 2009 il «padre della ricerca sulla pace moderna», l’accademico norvegese Johann Galtung, ha predetto la caduta dell’impero americano nel 2020. Nell’attuale momento di alta tensione che sconvolge gli Stati Uniti, molte persone probabilmente credono che ci abbia azzeccato, anche se sarebbe un errore dire che la divisione politica interna unita all’attuale avversione per le guerre su suolo straniero siano la stessa cosa dell’erosione del potere americano nel mondo.

Sulla base degli scritti di Galtung e delle sue dichiarazioni precedenti, è più probabile che la sua previsione fosse basata sulla speranza, piuttosto che sui fatti. Galtung ha affermato di disprezzare il «fascismo strutturale» delle ricche democrazie cristiane. Ammirava invece le tirannie come Cuba sotto Fidel Castro. Nel 1974 ha preso in giro la venerazione dell’Occidente per «personaggi d’élite perseguitati», come Alexander Solzenicyn e Andrei Sakharov. Galtung ha paragonato gli Stati Uniti alla Germania nazista per aver bombardato il Kosovo, riservando i suoi più alti elogi alle opere del presidente cinese Mao e ai suoi successi «infinitamente liberatori».

Negli anni ottanta e novanta, l’attivista per i diritti umani Caroline Cox e il filosofo Roger Scruton hanno analizzato i programmi di studi sulla pace. E li hanno trovati intellettualmente incoerenti: privi d’informazioni sull’Urss, anche al culmine della Guerra Fredda, e pieni di pregiudizi. I loro laureati sono passati al personale delle Ong di sinistra e hanno sostenuto con entusiasmo la Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001 a Durban, un evento vergognoso quasi interamente consumato da un odio incredibilmente crudo per Israele.

Come l’arguto osservatore culturale Clay Shirky ha giustamente percepito, «le istituzioni cercheranno di preservare il problema per la cui soluzione sono nate». Se i palestinesi alla fine decideranno che è nel loro interesse fare le necessarie concessioni per normalizzare le relazioni con Israele – ciò non accadrà finché i leader attuali non se ne saranno andati, ma potrebbe accadere poco dopo – questo non avverrà grazie all’industria della pace, ma a suo dispetto.

 

Barbara Kay è editorialista settimanale per il National Post dal 2003. Le pubblicazioni per cui scrive attualmente includono thepostmillennial.com, Canadian Jewish News, Quillette e The Dorchester Review. È autrice di tre libri.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

 

Per saperne di più:

 

Articolo in inglese: How the ‘Peace Industry’ Got It Wrong on the Middle East

 
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