Il Tao secondo Socrate

Che cosa possono avere in comune i coltivatori taoisti dell’antica Cina, che si ritiravano nelle grotte in cerca dell’illuminazione e del Tao, e Socrate, che dedicò l’intera esistenza a dialogare con i suoi concittadini per risvegliarli alla virtù? Sembrano due mondi lontani, Oriente e Occidente, eppure vi sono punti di contatto che rivelano suggestioni di una profonda esperienza spirituale.

In diversi dialoghi, Platone descrive una curiosa pratica in cui Socrate si appartava immobile, in meditazione. Così ad esempio, nel Simposio platonico, Alcibiade ce lo descrive capace di una tale intensa concentrazione da perdere del tutto il contatto con il mondo esterno, fissandosi in uno stato corporeo d’immobilità prolungata:

«Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli altri soldati l’osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo – era estate – e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole». (Simposio)

Sebbene la pratica di Socrate venga definita ‘meditazione’, nessuno dei presenti sa spiegarsi perché Socrate stia là immobile per lungo tempo. Eppure questa ‘abitudine’ è messa in relazione con un certo vigore fisico, con una forza d’animo che suscitava ammirazione. Socrate è descritto da Alcibiade come una persona di straordinaria calma e capacità di dominio di sé, in grado di sopportare il freddo anche in condizioni estreme, coraggiosissimo in guerra e resistente a ogni tentazione dei sensi.

ESERCIZI FISICI CON UNO SCOPO SUPERIORE

L’uso di speciali esercizi meditativi e una vita moralmente solida sono stati per secoli in Cina gli ingredienti di un’idea che ha permeato ogni aspetto della civiltà cinese: quella che un essere umano può, attraverso la disciplina di una pratica spirituale, trascendere questa esistenza ordinaria. Il discepolo che ha successo in queste arti è definito in vari modi: un ‘illuminato, una persona che ha ottenuto il Tao (cioè la ‘Via’), un ‘immortale’.

Uno dei principali studiosi della religione cinese, Livia Kohn, scrive che nella tradizione cinese «gli esercizi fisici sono il primo passo attivo verso il ‘Tao’: servono a rendere il corpo sano, a prolungare la durata della propria vita e ad aprire il libero fluire del Tao». I taoisti cinesi per secoli hanno fatto del corpo «la base, la radice e il fondamento del processo di coltivazione, un modo per ancorare sé stessi nella fisicità e trasformare la natura stessa dell’esistenza corporea come parte dell’aspirazione al divino».

Nel corso dei secoli in Cina è stata sviluppata una ricca varietà di discipline fisico-spirituali, che prevedevano il controllo della respirazione, una alimentazione particolare o il digiuno, la meditazione e speciali esercizi fisici, che dagli studiosi sono chiamate generalmente ‘coltivazione’.

Nella loro forma più completa, queste pratiche combinavano la disciplina fisica alla più severa rettitudine morale: Kohn scrive che «coltivazione significa azione e movimento in avanti, progresso e rinforzo, e una volta iniziato si tratta di un processo, un continuo movimento di trasformazione. Richiede anche il mettere in discussione le ipotesi di fondo su di sé e sul mondo, di diventare una persona nuova a ogni fase, che non è mai abbastanza soddisfatta, finita o conclusa: c’è sempre l’ideale divino che si trova al di sopra».

UNA VITA MORALMENTE SOLIDA

Gli esercizi fisici e la meditazione erano però solo una parte della ‘pratica’: era richiesta anche la capacità di controllare il proprio pensiero e i propri desideri, di eliminare gli attaccamenti, in altre parole di raggiungere il dominio morale di sé.

Leggendo i dialoghi platonici, è evidente come Socrate debba aver percorso una strada di questo tipo, per realizzare la missione che gli era stata «affidata dal dio»: trascorse l’intera esistenza a dialogare con gli altri per risvegliarli, per ammonirli a scegliere la virtù come il maggiore dei beni. Di fronte a chi lo accusava di corrompere i giovani, Socrate si descriveva così:

«Infatti io me ne vado in giro senza fare altro se non persuadervi, giovani e vecchi, a non preoccuparvi né del corpo né dei soldi più che dell’anima, perché sia quanto migliore possibile, dicendo: “L’eccellenza non deriva dalla ricchezza, ma dalla virtù provengono la ricchezza e tutti gli altri beni per gli uomini, sia come privati sia in quanto comunità”». (Apologia di Socrate)

Di fronte ai suoi accusatori, Socrate rivendica la verità della sua condotta portando a testimoni la propria povertà, la disattenzione per l’interesse materiale e una vita dedicata a soddisfare una missione spirituale quale richiesta proveniente dalla divinità:

«Farò questo a chiunque incontri, giovane e vecchio, forestiero e cittadino, ma soprattutto ai cittadini, in quanto mi siete più vicini per nascita. Perché questo è quello che mi ordina il dio – tenetelo presente – e io penso che alla città finora non sia accaduto nessun bene più grande del mio servizio al dio». (Apologia di Socrate)

È suggestivo pensare, allora, che dalla dimensione spirituale nasca l’azione di Socrate verso i suoi concittadini, nel tentativo di risvegliarli. Così come nelle antiche e tradizionali pratiche mistiche e iniziatiche l’immobilità in una posizione, la meditazione, è la condizione quasi necessaria per volgere la coscienza verso l’interno, verso la pura dimensione spirituale, e insieme per trasformare sé stessi.

DEDIZIONE ED ESTREMO SACRIFICIO

Nell’antica Cina le aspirazioni spirituali più alte erano accompagnate  da richieste estreme di sacrificio e dedizione: c’erano coltivatori taoisti che si calavano in una grotta con l’aiuto di una corda che poi tagliavano, perchè erano consapevoli che non avrebbero avuto né cibo né acqua, e l’unica alternativa al successo, al Compimento e all’ottenimento del Tao, sarebbe stata la morte.
Akira Akahori, studioso dell’antica Cina, afferma che «si poteva diventare immortali solo con un’assoluta dedizione alla pratica, rinunciando completamente al mondo comune, senza paura di fronte alla morte».

Socrate non era un monaco e la sua ‘missione’ non lo portò lontano dalla società ateniese, alla ricerca della realizzazione spirituale: la sua missione e la sua aspirazione richiedevano la medesima dedizione. E di fronte ai suoi accusatori e alla condanna a morte, così parlò della morte che lo attendeva:

«Farei dunque una azione terribile se, quando invece a schierarmi è il dio, come io ho supposto e inteso, con l’ordine di vivere facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri, avessi paura della morte o di qualunque altra cosa e abbandonassi il mio posto. Sarebbe una cosa terribile, e mi si potrebbe certo portare in tribunale giustamente, con l’accusa di non credere che gli dei esistano, perché disubbidisco all’oracolo, ho paura della morte e penso di essere sapiente senza esserlo». (Apologia di Socrate)

Quel che conta per Socrate è essere, e diventare, un uomo capace di verità verso sé stesso, come afferma concludendo il discorso di fronte al tribunale che lo ha condannato a morte:

«Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione – né possibile, né bella – ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti».

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