Il ritorno di Donald Trump

Di Camilla Antonini
L’autrice dell’articolo, Camilla Antonini, si è laureata in Scienze dei beni culturali nel 2011 presso l’Università degli Studi di Milano e si è in seguito specializzata in Discipline Cinematografiche presso l’Università degli Studi di Torino. È inoltre diplomata al Conservatorio e negli ultimi anni si è occupata di critica cinematografica.

È tornato.

Lo scorso 28 febbraio Donald Trump ha tenuto un lungo discorso alla convention di Orlando, appuntamento annuale dei conservatori. Dopo oltre un mese di silenzio, mettendo in apprensione i suoi oppositori che non sapevano dove volesse andare a parare. Dopo illazionistici fiumi di inchiostro sprecati dalla stampa sui suoi progetti futuri, l’ex presidente è tornato alla ribalta al Cpac (Conservative Political Action Conference), il raduno degli attivisti conservatori del Partito Repubblicano. A prescindere dal sobrio discorso di commiato del 19 gennaio alla Casa Bianca e dopo l’arrivederci, il «We will be back in some form» alla base dell’Air Force 1 del 20 gennaio, The Donald torna più combattivo che mai ad incitare le folle. Come giustamente afferma l’analista geopolitico Umberto Pascali intervistato da Francesco Toscano ai microfoni di Vox Italia,  Trump ha toccato tutti i punti deboli, veri ‘talloni’ d’Achille del suo nemico di sempre, il deep state. I brogli elettorali della passata elezione, l’attacco serrato ai censori di Big Tech e Silicon Valley, le scellerate politiche migratorie del suo successore (il cui primo mese come presidente è definito come il peggiore mai visto nella storia moderna) e le altrettanto scellerate missioni di pace di quelli che lui chiama, con piena ragione, guerrafondai.

In sintesi: è tornato a dire l’indicibile.

È tornato a puntare il dito contro gli inattaccabili.

È tornato determinato come mai prima d’ora.

Cita un sondaggio che lo darebbe come leader di riferimento tra i repubblicani con un’incredibile percentuale che oscilla tra il 92 e il 97%.

Alla luce di questi dati, persino il New York Times (non certamente un giornale sostenitore delle politiche dell’ex presidente) ha affermato che la lotta all’interno del Partito Repubblicano è terminata, dato che questo è completamente ed insindacabilmente nelle mani di Donald Trump. Appare utile notare come alcuni tra i più acerrimi nemici di Trump all’interno del Partito Repubblicano siano invece caduti in disgrazia. Il gradimento tra la popolazione di Mitch McConnell appare ridotto al lumicino e si situerebbe attorno al 16%, come fa notare il giornalista italo-americano Roberto Mazzoni sul suo canale. Un dato mai stato così basso e che ha ricevuto la cosiddetta ‘mazzata finale’, dopo le pesanti parole di McConnell al processo per l’impeachment. Dopo aver accusato Trump di essere effettivamente l’istigatore dell’irruzione in Campidoglio del 6 gennaio, infatti, McConnel ha votato per l’assoluzione. Un tentativo di coltellata alle spalle dell’ex presidente ma senza il coraggio di andare fino in fondo. 

Nonostante qualche dissapore all’interno del suo partito, The Donald torna, quindi, a far parlare di sé e lo fa in un momento non particolarmente favorevole per il mondo dem, scosso dall’inchiesta contro Andrew Cuomo.  Il governatore dello Stato di New York è accusato infatti di essere responsabile della morte di oltre 15 mila anziani nelle case di riposo, messi a contatto con pazienti dimessi dagli ospedali ma ancora positivi al Covid-19 ed è al centro di scandali di natura sessuale, accusato da tre donne, tra cui una sua segretaria. Non bastassero i problemi legati a Cuomo, già scaricato, pare, da un Partito Democratico impegnato anche su un altro fronte: la raccolta di firme che in California procede implacabile per cacciare Gavin Newsom. Iniziata nel dicembre 2020,  punta a raccoglierne entro marzo un numero sufficiente per indire un referendum che porti alla destituzione dell’attuale governatore. Se questo dovesse avvenire, sarebbe una ferita aperta nel mondo dem, che governa incontrastato da molti anni una California roccaforte dei progressisti. Gavin Newsom è accusato di politiche scellerate che stanno causando un massiccio esodo di aziende e ditte verso il Texas e la Florida, in un continuo stillicidio che dura ormai da  mesi.

Ed ora che Trump è tornato con veemenza a farsi sentire, la situazione sembra destinata a complicarsi ulteriormente. 

Ha esortato infatti tutti i patrioti americani ad unirsi ed attivarsi perché il momento è drammatico e l’America non può stare a guardare lo scempio che si sta consumando sotto i suoi occhi. E che sembra essere solo all’inizio, peraltro. Insomma, una vera e propria ‘chiamata alle armi’ in nome di una battaglia da combattere contro i nemici del popolo americano, che si nascondono dietro una stampa che egli definisce senza mezzi termini inadempiente, in quanto non svolge onorevolmente il proprio dovere, rifiutandosi di fare le domande giuste e di portare alla luce i fatti veramente importanti. Quella stampa che egli afferma veicolare fake news e messaggi pericolosi e che è composta dai «più grandi impostori che ci siano», per citare le esatte parole di Trump (e non appare certo confortante sapere che mutatis mutandis lo stesso schema di ‘professionisti dell’informazione’, orrendamente complici e corrotti, si ripeta oltreoceano con i medesimi squallidi stilemi italiani ed europei). 

Anche perché oltre a risultare fastidiosamente schierata politicamente, la stampa americana si è resa portavoce di un fenomeno nuovo ma in realtà ‘vecchio quanto il mondo’: la cosiddetta cancel culture. Se ne è parlato per mesi durante le rivolte dei Black Lives Matter della primavera scorsa, quando in nome del rispetto per la cultura nera e per le minoranze in generale, si sprecarono fiumi di inchiostro per giustificare un fenomeno oltremodo pericoloso, quello dell’eliminazione di determinati stilemi ‘troppo bianchi’ che offenderebbero le altre culture. Stilemi, ovviamente, riunificabili nella persona di Donald Trump che, forse per togliersi qualche ‘macigno’ dalla scarpa, fa notare al Cpac come la cultura della cancellazione sia in realtà un metodo semplicissimo per screditare l’avversario non sulla base di idee, proponendone magari di nuove e migliori, ma semplicemente attaccando personalmente chiunque sia espressione di qualcosa che si desidera rimuovere. Una tecnica banale e scontata: in mancanza di idee si taccia l’avversario di essere un  dittatore, un razzista, un omofobo, un fascista, per evitare la discussione. Forse proprio perché non c’è partita e perché, probabilmente, si uscirebbe sconfitti dal confronto. Semplice, no?

E siccome ora al potere ci sono gli amici della stampa mainstream, appare necessario, a detta di Trump, opporsi alla politica di Joe Biden, che starebbe portando avanti un’agenda contro «la famiglia, l’occupazione, i confini, l’energia, la scienza e le donne». Perché «non importa quanto l’establishment di Washington e i potenti interessi particolari vogliano metterci a tacere», ammonisce, promettendo che il movimento ‘Make America Great Again’ è solo all’inizio e non si arrenderà di fronte a politiche che mirano a spingere l’America e gli americani all’ultimo posto. Perché, da vincente, esclama: «We will win».

Lunga parte dell’arringa si occupa delle politiche migratorie della nuova amministrazione che hanno ridato linfa e forza a quella che egli definisce la peggior specie esistente al mondo: i trafficanti di esseri umani, che si arricchiscono sulle speranze di poveri disperati, sullo spaccio di sostanze stupefacenti e sulla delinquenza che forzatamente prolifera in condizioni di disagio assoluto come quello in cui sono costretti a vivere molti abitanti delle periferie delle grandi metropoli. Protezione dei confini, tuona, non per egoismo, ma per l’impossibilità di risolvere questioni troppo grandi e complesse di cui l’America non sembra essere in grado di occuparsi. Definisce quello che sta facendo Biden, spingendo poveri disperati nelle mani di persone prive di scrupoli, come pericoloso, immorale e indifendibile.

Sottolinea poi come le politiche riguardanti l’energia del suo successore mirino unicamente a privare l’America della propria indipendenza per poter ricominciare, con qualche scusa non ancora meglio precisata, a ridare linfa alle ‘missioni di pace’ ed alle ‘esportazioni di democrazia’, che tanto piacciono ad una componente del mondo americano e che hanno come unico scopo l’approvvigionamento di gas e materie prime in Medioriente. Il dissenso sulle politiche energetiche, tuttavia, ha già generato la ferma reazione di alcuni governatori, come Greg Abbott del Texas che ha fatto sapere che proteggerà l’industria del petrolio e del gas naturale dagli attacchi che giungeranno da Washington. Stilettata di Trump, ovviamente, anche sui «disastrosi» accordi di Parigi sul clima, nei quali Joe Biden è prontamente rientrato. Da notare anche la geniale idea di smantellare l’oleodotto canadese che riforniva l’America, giungendo in Texas, e che ha portato alla perdita di parecchi posti di lavoro. Ora, poiché alcuni analisti hanno stimato la disoccupazione americana a livelli record, ben oltre quelli del 2008 quando il crollo della banca Lehman Brothers causò una tremenda crisi occupazionale, appare davvero geniale incrementare il numero di disoccupati proprio in questo momento.

Ma la stilettata contro i guerrafondai non si limita agli avversari politici. Il Partito Repubblicano annovera ancor oggi tra le sue fila numerosi neocon vicini alle politiche di George W. Bush, come ad esempio Liz Chaney, figlia di Dick Chaney, vicepresidente dal 2001 al 2008, l’uomo che forse più di tutti è responsabile delle sanguinose guerre degli ultimi anni. Donald Trump si è prefissato l’obiettivo di rimuovere i Rino (Repubblicans In Name Only) dal partito e Liz Chaney è una di questi. Lo scopo è il formare una nuova classe di politici da promuovere per le midterm elections del 2022.  Ed i guerrafondai non saranno di certo graditi. Il Partito Repubblicano, depurato dagli esponenti che si sono allontanati dai dettami del presidente Abraham Lincoln, ritroverà così nuovo vigore e si potrà proporre come il vero ed unico rappresentante dei lavoratori e dei patrioti americani.

Dunque, nuova rassicurazione al Cpac: non verrà fondato nessun nuovo partito, mantra che la stampa ha ripetuto per oltre un mese. Donald Trump è ancora il leader di riferimento dei Repubblicani e non commetterà l’errore di scindere l’elettorato conservatore. Non farà un autogoal poiché questa mossa renderebbe impossibile una vittoria e da uomo vincente ed astuto quale è, egli punta inesorabile alla vittoria.

Per la terza volta.

Già. Perché la prima è stata l’inaspettata sconfitta di Hillary Clinton del 2016, la seconda è stata la truffaldina debacle di Joe Biden e la terza potrebbe essere quella del 2024. 

Perché potrebbe anche decidere di ricandidarsi.

Forse è troppo presto per parlarne. Al momento infatti le priorità, secondo il leader sono: riaprire le scuole (ancora chiuse in molti stati), porre un freno all’immigrazione incontrollata, ripristinare l’integrità elettorale, tenere testa alla Cina e ridimensionare il monopolio di Big Tech.

Altro tema caldo, quello della battaglia contro gli oligarchi della rete, piccoli dittatori ormai non più tanto in nuce che silenziano a proprio piacimento chiunque sia ritenuto portatore di messaggi diversi dalle nuove verità rivelate che i signori del web desiderano proporre.

Ma la rete non può per sua natura essere controllata e le notizie arrivano comunque a destinazione e questo The Donald sembra saperlo molto bene, tanto da presentarsi ancor più deciso e forse rafforzato nonostante gli avvenimenti degli ultimi mesi.

E sembra incitare a tenere occhi e orecchie bene aperte, informarsi in modo corretto, avere bene chiara quale sia la realtà e quali siano le sue mistificazioni, in uno sforzo che ogni cittadino di ogni parte del mondo deve far proprio in un momento difficile come quello attuale.

E che necessita di persone battagliere ed assetate di verità disposte a squarciare il velo della menzogna che ormai da troppo tempo insidia la nostra attualità.

 

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

 
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