Il futuro dell’Afghanistan, quando il ritiro degli americani sarà completato

Di Venus Upadhayaya

Nuova Delhi – Il ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan, riprogrammato a settembre, ha creato un periodo di instabilità, e le potenze regionali e globali stanno testando le acque. E gli esperti ritengono che il processo di pace dipenderà da se queste potenze coopereranno o competeranno tra loro.

Gli Stati Uniti hanno deciso di mantenere migliaia di soldati in Afghanistan, oltre la scadenza originale del primo maggio, e di completare l’uscita entro l’11 settembre. La scadenza precedente era stata annunciata dall’amministrazione Trump lo scorso anno nei negoziati con i talebani.

L’annuncio ufficiale per il «ritiro di tutte le 2.500 soldati statunitensi» in quattro mesi, ha però creato un potenziale periodo di violenze. Intanto, le potenze regionali e globali stanno rilasciando dichiarazioni e ospitando riunioni per discutere le loro politiche.

Hamid Bahrami, ex prigioniero politico in Iran, autore e analista indipendente del Medio Oriente con sede a Glasgow, in Scozia, ha spiegato che i conflitti in Afghanistan sono radicati nella regione e la soluzione può essere sostenuta solo collettivamente: «Poiché i conflitti in Afghanistan sono radicati nella regione, la soluzione richiede anche pressioni su Paesi come Iran, Pakistan e Qatar, per porre fine al loro sostegno finanziario e armato ai talebani e perseguire i loro interessi attraverso la diplomazia multilaterale. L’uso multiforme dei talebani e del governo afgano come strumenti di pressione reciproca non farà che aumentare la guerra regionale e l’esportazione del terrorismo».

Inoltre, con i soldati statunitensi ancora al loro posto, l’instabilità è aumentata in modo significativo – spiega Bahrami – e una volta che non ci sarà un potere di bilanciamento presente lì, l’instabilità continuerà ad aumentare.

La situazione in Afghanistan può evolvere come una «vittoria per tutti», o una sconfitta per tutti: «Competizione per interessi o cooperazione per stabilità. In caso contrario, trasformerà ancora una volta l’Afghanistan in una fabbrica di terroristi e narcotici. Ma nella prima fase, i talebani devono passare da una forza militare a una politica. Questo obiettivo può essere raggiunto dall’Occidente esercitando una reale pressione sul Pakistan, alcuni Stati arabi sunniti e l’Iran, per porre fine al loro sostegno strategico, tattico finanziario e armato ai talebani».

Gli Stati Uniti devono impedire a quei poteri di minare il processo di pace in Afghanistan, scrive invece per e-mail a Epoch Times Michael Johns, ex autore di discorsi per la Casa Bianca e analista di politica estera della Heritage Foundation. Johns è stato anche una forza trainante sia nell’attuazione che nel sostegno della dottrina Reagan, in base alla quale gli Stati Uniti fornirono assistenza militare alle forze di resistenza anticomunista in Afghanistan, Angola, Cambogia e Nicaragua. Johns ha sostenuto l’armamento delle forze mujaheddin afghane guidate da Ahmed Shah Massoud, che ha contribuito a guidare la lotta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, ma si è anche opposto alle fazioni mujaheddin arabe che hanno poi composto i componenti centrali di al-Qaeda.

«La più grande minaccia alla pace e alla stabilità in Afghanistan – dice – sono i talebani che vedono la partenza delle truppe statunitensi come un invito a utilizzare la forza militare con metodi che minano la condivisione del potere e contraddicono gli impegni presi. Questa minaccia sarebbe notevolmente amplificata se una qualsiasi potenza regionale aiutasse i talebani in un simile perseguimento».

«Gli Stati Uniti devono contrastare qualsiasi sforzo da parte di Russia, Cina, Iran o qualsiasi altra forza, che mini la pace e la stabilità dell’Afghanistan e questo eventuale sforzo dovrebbe essere visto come un atto di immensa ostilità contro gli Stati Uniti, che abbia come conseguenza delle misure punitive».

Il presidente Joe Biden parla dalla Sala dei Trattati alla Casa Bianca, del ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, a Washington, il 14 aprile 2021 . (Andrew Harnik / Pool / Getty Images)

Tensioni tra Stati Uniti e forze regionali

Bahrami ha spiegato che le tensioni tra gli Stati Uniti e attori regionali come Russia, Iran, Cina e Pakistan, stanno influenzando le alleanze regionali in Afghanistan, e queste alleanze diventeranno più complicate una volta che gli Stati Uniti usciranno dal Paese. «Dobbiamo considerare gli Stati Uniti un punto di equilibrio nell’Asia centrale e occidentale. Come quello che fa nel Pacifico orientale e settentrionale. Avendo assistito alla lotta tra Stati Uniti e talebani dal 2001, ritengo che, non appena gli Stati Uniti se ne andranno, l’Afghanistan diventerà un campo di battaglia tra i Paesi regionali», ha affermato l’analista, aggiungendo che non esistono due potenze che operano all’interno dell’Afghanistan e condividono gli stessi interessi: «La pace con i talebani ottenuta al costo della prigionia politica dell’Afghanistan da parte del Pakistan, della prigionia in materia di sicurezza da parte dell’Iran e della prigionia economica da parte della Cina, sono tutte contrarie agli interessi di sicurezza dell’Occidente».

L’Occidente deve mantenere la sua presenza all’interno dell’Afghanistan, o almeno dovrebbe rafforzare l’India come bilanciatore, afferma Bahrami: «Naturalmente, l’India deve prima formulare le sue politiche con l’Occidente in modo tale da vedere una convergenza di sicurezza e interessi economici con l’Occidente. In secondo luogo, l’India dovrebbe dare la priorità al principio di promuovere la democrazia occidentale contro l’espansionismo cinese e il suo piano della Nuova Via della Seta».

Secondo Bahrami, Iran, Pakistan e alcuni Stati arabi usano i talebani come un «cavallo di Troia» all’interno dell’Afghanistan. «Ad esempio, il Pakistan sfrutta i talebani per isolare l’India nel processo di pace in Afghanistan, e l’Iran fa lo stesso per indebolire la posizione saudita». Se il Pakistan vuole proteggere i suoi interessi, deve smettere di sostenere i talebani e invece perseguire negoziati multilaterali. «Tuttavia, un Afghanistan debole è molto meglio per il Pakistan e Islamabad fa del suo meglio per realizzare questo».

Gli Stati Uniti non fanno pressione sul Pakistan perché temono che questo possa spingerlo verso la Cina, che però la ritiene una «politica fatale». «In Pakistan, la Cina sta costruendo uno dei più grandi porti dell’Asia, collegando la Cina all’Oceano Indiano attraverso il porto di Gwadar. Stabilire questa tratta strategica non sarebbe facile senza l’effettiva presenza della Cina in Afghanistan».

Johns spiega che dai tempi dell’occupazione sovietica, l’impegno del Pakistan all’interno dell’Afghanistan è stato «preoccupante». «Il servizio di intelligence del Pakistan è stato un partner inaffidabile nel nostro sostegno ai mujaheddin afghani durante l’occupazione sovietica e spesso ha cercato di deviare gli aiuti a elementi più radicalizzati in Afghanistan, comprese le forze che alla fine sono venute a formare al-Qaeda», ha affermato Johns, aggiungendo che il Pakistan ha offerto rifugio ai talebani e ad Al-Qaeda, dopo agli attacchi dell’11 settembre. «Più di recente, il Pakistan sembra considerare le sue relazioni con gli Stati Uniti più vitali, invece di dimostrare una forza dirompente in Afghanistan. Ma la partenza delle truppe statunitensi metterà chiaramente alla prova questa tesi».

Bahrami afferma che è «completamente sbagliato» coinvolgere l’Iran nel processo di pace perché aggraverà solo la crisi, mentre «l’eliminazione del regime iraniano dal processo di pace può convincere l’Arabia Saudita a svolgere un ruolo positivo nel processo».

Johns ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero continuare la «campagna di massima pressione» iniziata durante l’amministrazione Trump, per garantire che il regime iraniano non diventi una forza minacciosa all’interno dell’Afghanistan: «Il regime rimane il più grande sponsor statale del terrorismo nel mondo, ed è probabile che lo diventi maggiormente se gli vengono fornite le risorse finanziarie che accompagnerebbero la revoca delle sanzioni o il ripristino dei legami commerciali degli Stati Uniti».

Uomini scavano tombe per le vittime di un’esplosione dell’8 maggio durante una cerimonia funebre di massa a Kabul, Afghanistan, il 9 maggio 2021. (Stringer / Reuters)

‘Un accordo ideale’

Secondo Johns ci sono dei limiti alla possibilità degli Stati Uniti di influenzare ogni situazione all’interno dell’Afghanistan, ma la migliore speranza è che le potenze globali e regionali imparino dalla storia: «Rendiamoci conto che l’impegno militare straniero lì non è mai stato davvero ripagato per nessuno. Gorbaciov, ad esempio, definì l’occupazione per nove anni dell’Afghanistan da parte dei sovietici una “ferita sanguinante”. Ogni tentativo militare di modificare la direzione dell’Afghanistan in un modo o nell’altro si è rivelato estremamente difficile e costoso, e non c’è motivo di credere che questo cambierà presto».

Johns ha affermato che il presidente Joe Biden non avrebbe dovuto pubblicizzare la scadenza per la partenza dei soldati statunitensi, per prevenire questa situazione di instabilità. «Per una questione di principio operativo generale, non è irragionevole stabilire scadenze come obiettivi governativi interni, ma è un errore pubblicizzare tali scadenze nel mondo. Pubblicizzando una data di partenza, tutto ciò che realmente realizziamo è fornire a coloro che fanno danni, un preavviso sul nostro piano. Finora non molti dei passi di Biden in materia di sicurezza nazionale o di politica estera hanno avuto senso, e questo include la pubblicità di una scadenza per la partenza dall’Afghanistan».

Un accordo ideale secondo Johns, si sarebbe realizzato se, anziché definire una scadenza incondizionata per la partenza, il ritiro delle truppe fosse stato subordinato al rispetto da parte dei talebani dei vari impegni in merito al cessate il fuoco, alle trattative con il Governo afghano, e attuato solo dopo che esso abbia adempiuto alle sue garanzie antiterrorismo: «Avendo fatto ciò, tuttavia gli Stati Uniti dovrebbero comunque chiarire, ora, che la partenza delle truppe statunitensi è subordinata al fatto che i talebani mantengano la lettera e lo spirito dei propri impegni prima della scadenza dell’11 settembre autoimposta».

Bahrami pensa che un accordo ideale significherebbe disarmare i talebani e assicurarne l’ingresso come forza politica all’interno dell’Afghanistan. «Quindi, le parti afgane possono costruirsi il proprio futuro, stabilire le loro relazioni con altre superpotenze regionali. Non dimentichiamo che anche questo accordo ideale dovrebbe essere basato sulla diffusione della democrazia in Afghanistan».

 

Questo articolo è il primo della serie «La situazione in mutamento dell’Afghanistan nel ritiro delle truppe statunitensi», in cui Epoch Times parla con analisti globali, legislatori, leader di pensiero e cittadini comuni in Afghanistan, per mostrare una prospettiva più ampia sulla situazione all’interno del Paese.

Articolo in inglese: Afghanistan Peace Process Will Depend on Whether Regional Powers Cooperate or Compete: Experts



 
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