Il coraggio nella morte naturale

Di Ezequiel Sebastian Toti

L’autore dell’articolo, Ezequiel Toti, è nato a Buenos Aires, Argentina. Editorialista per vari media europei ed americani, ha formazione in comunicazione di emergenza e comunicazione strategica. È vice presidente internazionale del Movimento Culturale Croce Reale – RnT e corrispondente della sua Agenzia di stampa in Argentina.

 

«Coraggio, dunque, caro padre, attaccati al mio collo; io ti reggerò sulle spalle; questa fatica non sarà pesante per me. Dovunque ci conduca il destino, unico e comune a entrambi sarà il pericolo, unica la salvezza».

Queste parole furono dette da Enea nell’opera di Virgilio mentre portava sulle spalle il vecchio padre per liberarlo dal fuoco che subì Troia. Sono parole non solo autenticamente umane per il loro amore per la dignità della persona umana e rispetto per la vecchiaia ma rispecchiano anche simbolicamente la porzione di Patria che ci portiamo addosso dove andiamo, portando con noi la nostra lingua, religione, cultura e tradizioni.

Oggi, però, l’Occidente moderno si trova in una situazione diametralmente opposta a quella del nascente Occidente del antichità. Oggi, al contrario, gli anziani non solo sono dimenticati in un angolo ma viene anche loro proposto, da una visione pragmatico-utilitaristica, di essere artefici del proprio annientamento.

Come tutti sappiamo, il ciclo della vita include inevitabilmente la morte, nella maggior parte dei casi anche la vecchiaia, quella vecchiaia che per chi sa vedere ha il suo bel volto, poiché va di pari passo con la comprensione della finitudine, l’umiltà di sapersi fragili, la semplicità di valorizzare le piccole cose, la solidarietà tra coloro che subiscono la stessa sorte dell’essere anche anziani, nei virtuosi l’amplificazione delle virtù che hanno portato con sé durante la loro vita e in coloro che non l’hanno, molte volte il guaritore pentimento.

Nei Paesi dell’Est, anche in quelli dove predominano sistemi autoritari disastrosi, gli anziani occupano un ruolo centrale nella vita spirituale delle loro famiglie. In alcuni casi, i parenti che maltrattano o non curano i propri anziani rischiano multe o addirittura il carcere.

L’Occidente, al contrario, ha promosso leggi che minacciano la dignità umana e la vita ai due estremi deboli negli esseri umani: neonati e anziani.

I continui eufemismi nei necrologi per evitare la parola morte, la cultura del ‘carpe diem’ e quella della costante evasione attraverso divertimenti puerili sono esempi di una popolazione che vive come se detta morte non esiste e di conseguenza come se non esistesse una vita dopo questa, con il suo corrispondente giudizio divino.

Tutto questo, però, non è sempre stato così.

Già nel 1224, il poverello San Francesco d’Assisi, lontano dall’utilizzare termini come «il brutto torvo mietitore», scelse di chiamare la morte «la nostra sorella morte corporale» nel suo famoso canto delle creature (Canticum o Laudes Creaturarum) e andando ad un esempio moderno sono significative le parole di Papa Benedetto XVI scritte nel febbraio 2022, quasi un anno prima dalla sua morte:

«Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…” (cfr. Ap 1,12-17)».

Parole che ci ricordano che la vita sulla terra è una milizia come dice Giobbe e che è una battaglia in cui non ci può essere capitolazione, quindi possiamo paragonare un paziente che, potendo porre fine alla sua vita, sceglie di portarla fino in fondo con quella di un soldato di leva che, avendo potuto disertare, sceglie di andare sul campo di battaglia; quest’ultimo ha già la sua parte importante di eroismo per aver accettato il combattimento fisico nello stesso modo in cui il primo ha la sua parte di santità accettando la croce del malattia.

Nel caso della maggior parte di noi semplici peccatori, la malattia, una volta accettata, costituisce nella maggioranza dei casi l’implicita approvazione che la malattia e la morte, sebbene teologicamente siano il prodotto del peccato originale, sono anche uno sconto per i nostri propri peccati: accettare la malattia e la morte implica quindi sapersi imperfetti e bisognosi della misericordia di Dio.

Invece, nel caso dei grandi santi, la morte era solo un piccolo salto, un piccolo filo che si tagliava, perché loro vivono già con gli occhi sulle cose del Cielo, compreso il desiderio di soffrire  per il bene delle anime.

In entrambi i casi, la visione cristiana ci mostra la contraddizione che significa la stessa croce di Cristo, che, come spiegava  il venerabile Monsignore Fulton Sheen, è un segno di contraddizione poiché il modo in cui Dio vede le cose non è il modo in cui le vede il mondo.

La contraddizione della croce si esemplifica anche in situazioni di vita dove c’è dolore ma c’è anche gioia ed amore, quindi come accade nel dolore della malattia, spesso dalla mano della felicità di sapersi accompagnati fino alla fine da altri esseri umani o dalla compagnia spirituale di Dio stesso.

Grandi mistici cattolici ci hanno lasciato nelle loro rivelazioni private, devozioni che promettono di essere una garanzia per affrontare in modo privilegiato gli ultimi momenti, come la devozione al Sacro Cuore di Gesù o alla Madonna della Medaglia Miracolosa, in queste devozioni vediamo la continuità della comprensione della morte che avviene attraverso il Cristianesimo.

La fede cristiana nella misericordia di Dio è stata sicuramente il sollievo di molte persone che sono morte sole in pandemia, private ​​di ogni contatto umano, un divieto così disumano che non si vede nemmeno in guerra o nell’applicazione della pena capitale. 

Anche i condannati a morte per reati gravi muoiono accompagnati.

Da tutto ciò si può concludere che finché l’Occidente non volgerà lo sguardo alle sue basi cristiane, seguirà solo una strada ascendente nel suo affronto alla stessa natura umana e a Dio stesso.

E se quell’Occidente si ostina a chiamare l’eutanasia una ‘morte dignitosa’, dimenticherà completamente il fatto che per il cristianesimo non c’è morte indegna. Cristo che ha accettato di morire innocente sulla croce ha cambiato tutto: morire di una lunga malattia o morire di un incidente assurdo non sono morti indegne, tuttavia morire persistentemente in peccato mortale lontano da Dio per sempre, lo è.

Speriamo che il giorno in cui l’Occidente muoia, muoia cristianamente.

 

Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista dell’autore e non riflettono necessariamente quello di Epoch Times.

 
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