Huawei continua a negare il suo legame con il regime

Il gigante tecnologico cinese ha risposto alle ultime accuse da parte della comunità internazionale durante una conferenza stampa tenutasi il 25 aprile a Shenzhen

Di Olivia Li

Huawei ha tenuto una conferenza stampa il 25 aprile per ribattere alle recenti accuse della stampa secondo cui l’azienda sarebbe finanziata dal regime cinese e non apparterrebbe realmente ai propri dipendenti.

Dinanzi ai giornalisti nella città di Shenzhen, dove ha sede l’azienda, Jiang Xisheng, segretario generale del consiglio di amministrazione di Huawei ha dichiarato che «gran parte delle affermazioni del governo americano non sono vere. […] Non c’è alcun capitale governativo investito in Huawei».

Huawei ha ripetutamente dichiarato infondati i timori dei funzionari statunitensi, dei parlamentari, e degli esperti, circa lo stretto legame tra l’azienda e il regime cinese; ha continuato a sostenere che si tratti di un’azienda privata interamente posseduta dai propri impiegati, e che opera, perciò, in maniera indipendente e senza intromissioni da parte delle autorità statali.

Ma uno studio pubblicato recentemente da due ricercatori ha rivelato che il 99 per cento di Huawei è di proprietà di un sindacato e che gli impiegati non hanno perciò una effettiva partecipazione azionaria.
I ricercatori hanno concluso che «data la natura pubblica dei sindacati in Cina, se è vero che il sindacato detiene la proprietà azionaria e se il sindacato e il suo comitato funzionano come i sindacati funzionano normalmente in Cina, allora Huawei dovrebbe effettivamente essere considerata come di proprietà dello Stato».

In risposta ai risultati dello studio, Jiang ha tentato di minimizzare il ruolo del sindacato nell’azienda: «Il comitato sindacale, che gestisce il sindacato di Huawei, organizza alcuni eventi ricreativi, fuori dagli orari di ufficio, incluse alcune attività sportive, per garantire che i dipendenti raggiungano un buon equilibrio psicofisico», ma «non è coinvolto nelle decisioni amministrative e operative di Huawei».

Lo studio: chi possiede Huawei?

Huawei ha dichiarato ripetutamente che l’azienda è di comproprietà di Ren Zhengfei, il fondatore, che detiene l’1,14 percento delle azioni, e dei suoi circa 100 mila dipendenti che ne detengono il resto. Questo è anche scritto nella relazione annuale dell’azienda, che afferma: «Huawei è un’azienda privata interamente posseduta dai suoi dipendenti».

Christopher Balding, un professore associato di economia presso la Fulbright University Vietnam, e Donald Clarke, un professore di giurisprudenza della George Washington University, il 17 aprile hanno pubblicato uno studio intitolato ‘Chi possiede Huawei?’ sul Social Science Research Network, una piattaforma online per la condivisione degli studi accademici. Hanno analizzato le informazioni pubbliche disponibili sia in Cina che all’estero, e ottenuto un quadro della struttura di controllo e proprietà di Huawei.
Sono giunti alla conclusione che l’affermazione secondo cui Huawei sarebbe interamente di proprietà dei suoi dipendenti è falsa.

Piuttosto, hanno scoperto che la gestione di Huawei è al 100 percento affidata a una holding, le cui azioni sono di proprietà del fondatore di Huawei Ren Zhengfei solo per l’1 per cento, mentre il restante 99 percento appartiene a un’entità denominata Investment & Holding Company Trade Union Committee.

Le cosiddette ‘azioni dei dipendenti’ sono in pratica delle azioni virtuali, che garantiscono ai dipendenti una percentuale dei profitti, ma nessun genere di potere decisionale. Le azioni non sono vendibili e decadono quando un impiegato abbandona l’azienda, perciò i ricercatori hanno concluso che rappresentano piuttosto un «programma di incentivi basato sulla ripartizione degli utili».

Sebbene lo studio non sia riuscito a determinare con certezza chi sia che possiede di fatto l’azienda, ha concluso che «è chiaro che non sono i suoi dipendenti» a possederla.

I finanziamenti di Pechino

Contemporaneamente, un’inchiesta giornalistica ha sottolineato ancora una volta la scarsa trasparenza del funzionamento interno dell’azienda.

Il quotidiano britannico The Times, citando una fonte anonima, ha rivelato il 20 aprile che alcuni mesi fa la Cia avrebbe mostrato ai suoi partner nell’ambito dell’alleanza tra intelligence di vari Paesi denominata Five eyes – Stati Uniti, Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda e Canada – le prove che Huawei avrebbe ricevuto fondi dall’Esercito Popolare di Liberazione (il nome ufficiale dell’esercito cinese), dalla Commissione per la Sicurezza Nazionale della Cina, e da un dipartimento non meglio definito dell’apparato statale dell’intelligence cinese.

In risposta a queste affermazioni, uno dei portavoce dell’azienda ha dichiarato alla stampa che «Huawei non commenta accuse non confermate, non sostenute da alcuna prova e provenienti da fonti anonime».

Quest’inchiesta, tuttavia, è solo l’ultima di una lunga serie di fatti che gettano seri dubbi sulla veridicità delle affermazioni della compagnia.

Due società che si occupano delle ‘pubbliche relazioni’ di Huawei negli Stati Uniti sono state classificate come Agenti stranieri

Per difendere la propria immagine negli Stati Uniti, Huawei ha assoldato due società statunitensi, la Racepoint Global e la Burson Cohn & Wolfe, per fare lobbismo in suo favore e fornire assistenza legale. Secondo i documenti ottenuti dal Center for Responsive Politics, un gruppo di ricerca nonprofit che monitora le attività lobbistiche dei governi stranieri, nel mese di marzo le due società sono state classificate dal Dipartimento di Giustizia come agenti stranieri.

Secondo gli archivi del Foreign Agents Registration Act, la Burson Cohn & Wolfe ha rivelato che avvierà una campagna per migliorare la reputazione di Huawei negli Stati Uniti lavorando con partner commerciali, consulenti, organi di stampa, influencer, e «importanti opinion leader», con un budget di 160 mila dollari.

Similmente, la Racepoint ha dichiarato che avrebbe incontrato persone influenti e prodotto contenuti promozionali, ma «senza contattare direttamente i funzionari del governo». Secondo la documentazione, Huawei si è impegnata a pagare a Racepoint 55 mila dollari al mese fino a settembre del 2019.

Sembra che negli ultimi anni Huawei abbia ingaggiato oltre sette enti per attività di lobbismo, come risulta dal Lobbying Disclosure Act, secondo le ricerche del Center for Responsive Politics. Ma questa è la prima volta che delle aziende americane vengono classificate come agenti stranieri che lavorano per Huawei.

Huawei sta inoltre conducendo campagne di lobbismo e di pubbliche relazioni anche in Canada e in Inghilterra.

 

Articolo in inglese: Huawei Tries to Steer Clear of Allegations About Murky Financing

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