Gli Investimenti esteri fuggono dalla Cina

La Cina sta diventando troppo costosa per molti produttori, che stanno così dislocando le loro fabbriche nel Sud-Est asiatico, in Messico e anche negli Stati Uniti. Almeno, questo è quello che dicono i dati. Nei giorni scorsi i funzionari cinesi hanno giurato che non è vero.

Chinascope, una società indipendente di esperti con sede a Washington, discutendo in breve un articolo di questa settimana uscito sul People’s Daily – il quotidiano portavoce di Stato –ha riferito che il Ministero del Commercio del Partito Comunista respinge questa nuova tendenza o «fenomeno», affermando che sono poche le società Oem (Original Equipment Manufacturer, produttori di apparecchiature originali, ndt) che hanno abbandonato la Cina per stabilire i nuovi impianti nel Sud-Est asiatico.

Il Ministero del Commercio, pur ammettendo che dal 2011 vi è stato un calo del 9,18 per cento negli start up delle aziende straniere in Cina, ha comunque minimizzato la gravità del problema, sostenendo che quest’anno, per gli investitori stranieri, il processo di approvazione è stato semplificato; ha suggerito inoltre che gli investimenti meno costosi nelle province dell’entroterra risolveranno il problema.

I titoli dei media occidentali, come quelli negli articoli sul Demand Planning e l’Inventory Management: «Outsourcing in Cina, una cosa del passato?», e ancora sul The Economist, «La fine della Cina conveniente», sono un chiaro segnale della crescente tendenza tra gli investitori stranieri a considerare la Cina un Paese nel quale non sia più possibile investire.

«Il vantaggio sul costo di produzione cinese si è eroso drammaticamente negli ultimi anni», ha affermato alla Cnbc Steve Maurer, amministratore delegato della società di consulenza AlixPartners. Il costo del lavoro più elevato, il valore crescente della valuta cinese e i costi di trasporto, sono fattori che hanno reso la produzione in Cina sempre più costosa.

Le agevolazioni fiscali alle aziende che si stabiliscono in Cina, non sono più quelle di una volta. Ora che la Cina è diventata la seconda economia più grande del mondo, sta gradualmente eliminando le imposte preferenziali che aveva offerto alle imprese straniere, ha riferito Akihiro Maekawa, amministratore delegato di una società di consulenza giapponese per le società giapponesi in Cina, alla rivista economica cinese Caixin.

Le imposte cinesi sulle aziende straniere, rispetto a quelle di altri Paesi asiatici, sono significativamente più elevate. Il Vietnam ad esempio, con pari aliquote del 25 per cento per le imposte sulle società e minori costi del lavoro, insieme alle imposte sul valore aggiunto pari a zero e ad una tassazione sui dividendi pari a zero – comparate rispettivamente con il 17 per cento e il 10 per cento della Cina – è molto più attraente per gli investitori, come la simile struttura dei tassi della Malesia, secondo un’analisi sulla concorrenza cinese descritta alla fine dello scorso anno in un’informativa cinese.

E’ però il crescente costo del lavoro che continua a far schizzare in alto i costi di produzione in Cina.

«Non è più conveniente come lo era prima», si è lamentato Dale Weathington, portavoce della società americana Kolcraft, che utilizza produttori di contratto per fare passeggini nel sud della Cina. Ha spiegato all’Economist che i costi del lavoro sono aumentati del 20 per cento all’anno negli ultimi quattro anni.

Sunil Gidumal, un imprenditore di Hong Kong, ha detto all’Economist che un terzo dei suoi costi sono in salari, che negli ultimi quattro anni nelle sue fabbriche nel Guangdong sono raddoppiati.

Un rapporto dell’Ufficio nazionale di Statistica ha mostrato come 25 province della Cina abbiano aumentato il salario minimo in media del 20,2 per cento; nel mese di giugno l’International Business Times ha segnalato, andando a citare la Camera di Commercio Europea in Cina, l’impatto che l’aumento dei salari ha sulla redditività: «Il fattore più importante che colpisce negativamente i margini di profitto netto è l’aumento del costo del lavoro, ma anche il rallentamento della crescita economica in Cina e in Europa, così come l’aumento della concorrenza, ha avuto effetti notevoli».

Non è solo l’investimento produttivo che sta abbandonando la Cina. Il 3 luglio il Wall Street Journal ha riportato in un articolo che i timori circa la stagnante economia della Cina e la riluttanza di Pechino nel risollevarla, stanno causando l’evacuazione degli investitori dal mercato cinese, con i gestori dei fondi globali che in ben 16 delle ultime 18 settimane hanno continuato a salvare denaro sottraendolo dai titoli cinesi in calo.

All’inizio di quest’anno, un’informativa cinese, basandosi su quanto affermato dal South China Morning Post, ha riferito che dal 2011, oltre 10 mila fabbriche della provincia del Guangdong nel sud della Cina, che avevano investito a Hong Kong, hanno chiuso; la produzione basata sull’esportazione è sempre meno praticabile in Cina: nel 2012 l’Amministrazione di Pechino per l’Industria e il Commercio ha cancellato 217 società immobiliari straniere, riferisce ancora l’informativa.

Articolo in inglese: Foreign Investment Flees China, Despite Denials
 
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