Usa, il caro prezzo dell’essere un poliziotto

Una notte di otto anni fa, immerso in un forte stato di depressione, l’agente di polizia Mark Di Bona si punta una pistola alla bocca: si sente incompreso e in conflitto con il Corpo, è molto suscettibile. Non solo: l’agente Di Bona ha frequenti incubi di scene viste sul lavoro – morte, spari, violenze su bambini, incidenti mortali –  eppure l’idea di chiedere aiuto lo imbarazza troppo.
Ma, quando è sul punto di premere il grilletto, pensa alla moglie, e abbassa l’arma. I cattivi pensieri, però, impiegano poco a riaffacciarsi nella mente, e la pistola torna a puntare il suo volto. Ancora una volta, Di Bona non se la sente: abbassa l’arma e chiama un amico, che lo convince a farsi aiutare.

Mark Di Bona ha 31 anni di servizio nelle forze dell’ordine: inizia nel 1985 nel Dipartimento di Polizia di Braintree nel Massachusetts e poi continua al Dipartimento di Polizia di Amtrak.

Oggi ha 52 anni, è vice sceriffo nella Florida centrale e istruttore in un’accademia di polizia. Inoltre, viaggia in tutto il Paese per tenere seminari sulla salute mentale e sul suicidio.

Tre anni fa diagnosticano a Di Bona il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts): ora sta combattendo anche ansia e depressione. Gli ci vuole molto tempo però per riuscire ad ammettere la realtà e per decidere di farsi aiutare. È solo uno dei tanti agenti di polizia che hanno sofferto di esperienze traumatiche nella loro carriera, e come lui altre migliaia di agenti hanno considerato l’idea del suicidio.

Secondo Badge of Life, un’organizzazione specializzata nella prevenzione del suicidio tra la polizia, nel 2008 si sono suicidati negli Stati Uniti 141 agenti, nel 2009 se ne contano altri 143 e, nel 2012, 126: un calo significativo, da attribuire probabilmente al cambio generazionale e alla maggiore quantità di giovani nelle forze dell’ordine.

Ron Clark, sergente in pensione della polizia di Stato del Connecticut e presidente di Badge of Life, ha rivelato che muoiono più poliziotti per suicidio che per colpi d’arma da fuoco e incidenti stradali messi assieme. Secondo Clark, la salute mentale è «quell’elefante invisibile nella stanza, di cui nessuno vuole parlare. Nessuno di loro [poliziotti, ndr] affronta il problema del Dpts, ma poi si ammalano proprio di quello, e finiscono per suicidarsi».

Secondo le stime dell’organizzazione, 100mila poliziotti negli Usa soffrono del Dpts, e le cifre non sono definitive.
Per Clark «è impossibile ottenere numeri precisi sul Dpts», per questo crede che si dovrebbe condurre uno studio nazionale a riguardo: i poliziotti spesso non chiedono aiuto per via dell’idea di uomo ‘macho’ che la loro professione porta con sé. «Non credo che esista un dipartimento senza agenti affetti dal Dpts, i poliziotti provano emozioni, e fanno un duro lavoro».

Negli Usa, secondo Clark, le malattie mentali in generale sono uno «scandalo», sono convinti ancora che quel genere di disturbi «colpisca sempre qualcun altro»; consiglia quindi agli agenti di polizia di sottoporsi a esami psicologici annuali, e di chiedere supporto agli amici e ai colleghi in servizio o pensionati. Ritiene inoltre che trainer e reclutatori dovrebbero parlare apertamente della salute mentale, in modo che chi entra in polizia ne sia al corrente sin dall’inizio.

CAUSE DEL DPTS

Di Bona ha perso quattro amici, e colleghi, che hanno deciso di suicidarsi: uno di loro era una recluta della sua Accademia, che si è tolta la vita 18 mesi fa.

Le immagini di tante scene drammatiche alle quali ha assistito durante la carriera, continuano a tormentarlo. Arrivato a Manhattan appena pochi giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre, è entrato nella squadra del Nypd, dove lo punzecchiavano perchè era tifoso dei Red Sox.

La scena che si è presentata a Ground Zero è stato uno shock: ricorda il suo arrivo sul posto, l’odore di morte nell’aria e la vista di così tanti corpi. Quell’esperienza è stata per lui la causa della sindrome da Dpts.

Secondo Ellen Kirschman, psicologa che presta anche volontariato presso la First Responders Support Network, le situazioni estreme come l’11 settembre potrebbero non essere le sole cause scatenanti. La Kirschman è autrice di diversi libri, tra cui ‘Counseling Cops: What Clinicians Need to Know’.

Secondo la sua esperienza, la causa più comune del Dpts nei poliziotti è l’aver a che fare con orribili incidenti che coinvolgono bambini.  I sintomi però non compaiono subito dopo un evento violento. Anche incidenti di minore entità potrebbero avere un certo effetto, considerato che gli agenti di polizia sono esposti a questo tipo di traumi durante tutta la loro carriera, e molti restano in servizio per più di 20 anni.

La Kirschman ricorda un agente che le ha raccontato un episodio di quando stava raccogliendo prove dopo il suicidio di un ragazzo di 16 anni. Mentre si trovava sul posto, come gli accadeva negli altri incidenti, la madre del ragazzo deceduto era corsa subito ad abbracciarlo: piangeva e non riusciva a lasciarlo andare.

Ci sono voluti giorni perchè si riprendesse da quel momento. La moglie gli chiedeva cosa c’era che non andasse, pensava che il marito ce l’avesse con lei per qualche ragione che non voleva rivelare. La Kirshman racconta che il poliziotto, padre di due bambini, si trovava in uno stato emotivo di forte allarme, ma si rifiutava di parlarne.

Secondo lei «Rimanere sempre in silenzio non aiuta. ‘Non portare il lavoro a casa è una sciocchezza’: spiega quello che provi, spiega il motivo del tuo cattivo umore».

La Kirschman ritiene che il lavoro nelle forze dell’ordine coinvolga anche la famiglia, per questo offre consulenza ai funzionari e ai loro familiari in workshop di gruppo.

Spesso, continua, i poliziotti esprimono sollievo quando viene loro diagnosticato il Dpts, e dicono: «Non immaginavo di avere il Dpts, credevo di essere pazzo e debole». La diagnosi infatti apre le porte a un aiuto, e non li fa sentire in imbarazzo.

Per tanti di loro però non è facile. Molti non parlano perché credono che questo possa farli apparire deboli, per questo tengono un atteggiamento riservato. Vogliono superare tutto da soli e combattono contro i sintomi del disturbo, soffrendo in silenzio, alcune volte si danno al bere per non sentire il dolore: «I poliziotti sono bravi a mascherare queste manifestazioni».

AFFRONTARE IL DPTS

Di Bona affronta il suo Dpts, la depressione e l’ansia, con una serie di attività: va da un terapista, un ex agente di polizia, segue delle cure, fa esercizio fisico e ascolta musica quando esce a passeggiare. È sposato da quasi 25 anni e la moglie, che ha studiato psicologia, lo sostiene da sempre. Anche il loro ‘incredibile’ cane, un pastore tedesco di 9 anni, svolge un importante ruolo di supporto per il vice sceriffo.
Adesso, Di Bona sente di essere sulla strada giusta, nonostante passi «alcune notti difficili, e in alcuni giorni l’ansia sembra avere la meglio e mi senta come se non riuscissi a scendere dal letto». Ma ricorda sempre a se stesso di dover essere forte, per se stesso e per gli altri, e di dover andare avanti.

Di Bona è piuttosto estroverso, ride molto, gli piace scherzare; però c’è molto di più, sotto quello che appare in superficie. Parla spesso della sua esperienza con il Dpts, ma dice anche che all’inizio confidava la sua situazione solo a poche persone. «Ero molto in imbarazzo, non volevo assolutamente espormi». Temeva anche di perdere il lavoro. Vorrebbe che tutti quelli che si sentono a disagio nell’ammettere di avere problemi di salute mentale, chiedessero aiuto: «Se può colpire me, può colpire chiunque».
Di Bona dovrà andare in pensione tra tre anni, e vuole continuare il suo lavoro al Badge of Life, dove sa di poter fare la differenza: «Mi hai convinto a chiedere aiuto», ha confidato un agente a Di Bona durante un seminario, mentre lo abbracciava dopo aver appreso della sua battaglia con il Dpts.

COMBATTERE IL DPTS AL NYPD

Tra il 1994 e il 1995 nel Dipartimento di polizia di New York si sono verificati 26 suicidi. Nel 1996, è stata fondata l’Organizzazione di Polizia che fornisce assistenza interna (Police Organization Providing Peer Assistance, Poppa, ndt). L’organizzazione, composta da 175 agenti volontari, mette a disposizione un numero verde da chiamare prima che si arrivi a mettere in atto il suicidio.

Ci sono due linee: una per gli agenti attivi e l’altra per i pensionati. La telefonata inizia con una conversazione con un volontario della Poppa, e può continuare con un incontro faccia a faccia, del tutto confidenziale. I medici sono inoltre disponibili per coloro che hanno bisogno di ulteriori trattamenti. La Poppa riceve in media quattro o cinque chiamate al giorno. Non ci sono orari o stagioni specifiche in cui le chiamate aumentano, ma aumentano quando si verifica il suicidio di un agente.
L’iniziativa è stata un successo: gli specialisti di salute mentale stimano che la Poppa, da quando ha cominciato l’attività, abbia impedito circa 150 suicidi. Secondo John Petrullo, direttore esecutivo dell’organizzazione, il numero dei suicidi è molto più basso rispetto agli anni ’90.

Petrullo, un ufficiale in pensione del 63esimo Distretto di Brooklyn, ha fatto notare che sarebbero necessarie più organizzazioni come questa in tutto il Paese: «Gli agenti di polizia sono quelli che di solito aiutano, ma a volte possono essere loro stessi ad avere bisogno di aiuto. Si impegnano a risolvere i problemi di tutti, ma per quanto riguarda i loro? Quello che gli agenti di polizia vedono tutti i giorni non sono cose piacevoli».

La Poppa organizza programmi educativi, oltre a due giorni di formazione, destinate ad altre unità, per insegnare agli ufficiali come identificare un collega che potrebbe essere affetto da Dpts. L’organizzazione riceve inoltre chiamate da agenti dell’Fbi e dai federali, che vogliono partecipare alla formazione, e ha inviato squadre in altre parti del Paese, tra cui Boston, durante gli attacchi-bomba alla maratona. Petrullo ha concluso: «Hanno bisogno di sapere che c’è un posto dove possano sentirsi al sicuro».

Articolo in inglese: PTSD: The Hidden Toll of Policing

 
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