Crisi del capitalismo, ‘distruzione creativa’ o intervento statale?

Nonostante l’elezione di Donald Trump abbia iniettato una fiducia temporanea nell’economia americana, sotto la superficie continuano a nascondersi i principali problemi strutturali. Queste tendenze, che sussistono da decenni, sono così radicate e difficili da gestire, che anche le strategie più audaci di Trump potrebbero rivelarsi inefficaci.

Per molti americani, la situazione economica attuale si può sintetizzare in questo modo: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, della scuola e dell’assistenza sanitaria; elevata concorrenza per lavori non molto remunerativi; tassi di interesse negativi e aumento di influenza e potere da parte delle istituzioni finanziarie.

Non c’è da meravigliarsi quindi che molti americani si sentano disorientati e, in un certo senso, diseredati. Il sistema capitalistico viene solitamente incolpato di creare disparità di reddito. L’anno scorso, molti si sono identificati con Bernie Sanders, socialista autoproclamatosi tale che garantiva che lo Stato sarebbe stato in grado di risolvere (quasi) tutti i problemi.

Ma il quadro reale, secondo Viktor Shvets, analista globale di Macquarie Group, è più sfumato. E di fronte ai problemi più difficili che devono fronteggiare gli Stati Uniti e il mondo intero, non propone facili soluzioni. Tuttavia, Shvets fa notare che in una vera e propria economia capitalistica, molti degli attuali squilibri non si sarebbero probabilmente radicati.

Perché al giorno d’oggi la gente è così scontenta del sistema economico?

La gente vuole essere rispettata, vuole sentirsi importante. Vogliono sentirsi collaboratori di valore e membri utili della società. Ma sempre più, la maggior parte delle persone sentono che il loro contributo non è più importante, rilevante o di valore.

Abbiamo un eccesso di capacità rilevante e troppo poca produttività. Il problema numero uno è la tecnologia in sé, che deprime la produttività e le modalità di valutazione degli input di lavoro. Questo sta alterando il modo in cui si investe e globalizza molto più di quanto si vorrebbe.

Ma l’altro problema, che abbiamo creato per noi stessi, è l’eccesso di finanziarizzazione e leveraggio, che è una diretta conseguenza del desiderio della società di crescere nonostante la stagnazione della produttività. Tutto questo determina una stagnazione dei redditi e, forse ancora più importante, la distruzione dei mercati del lavoro convenzionali e le tradizionali professioni e carriere. E questo alimenta domande come “Cosa pensi di te stesso e del tuo contributo?” e anche “Quanto sei prezioso e importante per il tuo datore di lavoro?”. Le generazioni più giovani, in particolare i Millennials o chiunque sia nato dalla metà degli anni 70 in poi, sente veramente che probabilmente non hanno fatto un grande affare.

Per cui si genera un conflitto tra l’autopercezione della popolazione – quello che vorrebbero essere – e la realtà in cui vivono realmente. Ogni volta che società ed economie attraversano simili periodi, le persone sentono che il sistema non è per loro funzionale. E non è così.

Tuttavia, nel capitalismo reale l’eccesso di capacità e un debito eccessivo possono essere impediti attraverso ‘ripuliture’, un concetto che l’economista austriaco Joseph Schumpeter chiama ‘distruzione creativa’

In teoria, se avessimo un’economia relativamente libera, l’unico ruolo del governo sarebbe di garantire che non si creino monopoli, che la legge e l’ordine siano mantenuti e che ci si occupi della necessità di disporre di infrastrutture basilari.

Oltre a questo, la scuola austriaca economica consente a imprese e industrie di fallire e al capitale di essere sistemato dove il settore privato ritiene opportuno. In altre parole, ci sarebbe un’epurazione di eccessi, aziende e industrie. Si potrebbero eliminare l’eccesso di leveraggio e la sovraccapacità correlata che, tra l’altro, è oggi uno dei fattori deprimenti della produttività; questo comporta il fallimento delle banche e la perdita dei depositi dei cittadini, una situazione che determinerebbe una maggiore attenzione a dove mettere i propri soldi.

Il problema è che, a partire dai primi anni 30, nessuno ha mai provato a fare tutto questo, perché l’impatto politico e sociale di quel piano d’azione sarebbe devastante.

Quindi la gente punta gli occhi sempre più al governo per risolvere questi problemi?

Negli ultimi dieci anni, il pendolo ha oscillato verso lo Stato e il settore pubblico è sempre più proattivo. Che si tratti di risistemare il capitale o forzare le imprese a investire o meno in determinati settori, lo Stato sta diventando molto più dominante.

L’attuale consenso narrativo vuole che la spesa in infrastrutture sponsorizzata dallo Stato sia una «buona cosa» e che la spesa pubblica, in generale, sia da incoraggiare. Chi avrebbe mai pensato che la gente degli anni 80 e 90  avrebbe oggi applaudito il governo e le infrastrutture di spesa? Ma questo è esattamente quello che sta accadendo ora. Le persone dicono: «Guarda, c’è un’alternativa». Naturalmente, un economista convenzionale sosterrebbe che tutto quello che dobbiamo fare è aumentare la produttività. E argomenteranno dicendo che quello che manca dal puzzle sono gli investimenti, di tipo non residenziale e a capitale fisso.

Se possiamo semplicemente investire più soldi, le persone diventano più produttive. E una maggiore produttività alimenterà salari più alti, pur contenendo l’inflazione. E questo diventerebbe parte integrate di tassi di consumo e di crescita più elevati.

Il problema è che ci sono dei motivi per cui le imprese non stanno investendo da decenni, e queste ragioni oggi sono altrettanto valide come lo erano decenni fa. Inoltre, la maggior parte di questi investimenti sembra essere guidata, o sottoscritta, dal settore pubblico. Il governo sta cercando di indurre il settore privato a investire in aree in cui non lo avrebbe mai fatto da solo: non è certo una ricetta per il miglioramento della produttività.
A mio avviso, la tesi tradizionale secondo cui tutto quello che serve è un aumento degli investimenti per rilanciare il ciclo di produttività è deficitaria.

In realtà, si dice che abbiamo troppo capitale ed eccesso di capacità produttiva

La maggior parte delle nuove attività hanno poco capitale, non ne hanno molto bisogno. E oggi la maggior parte delle nuove attività del settore privato ha una portata quasi illimitata. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, la scalabilità era molto importante; si era verificato un problema dovuto alla mancanza di capitale e la maggior parte dei settori disponevano di molto capitale; avevamo bisogno di molta forza lavoro; avevamo bisogno aumentare le ore lavorative.
In altre parole, il lavoro doveva combaciare a livello produttivo con macchinari e il compito del management era di ‘sfruttare gli input di lavoro’.

Nel nuovo mondo del ventunesimo secolo, c’è sovrabbondanza di capitali e in effetti si potrebbe sostenere che stiamo affogando nel capitale; mentre la maggior parte delle operazioni non sono più ad alta intensità di capitale, e le ore lavorate non sono più un forte parametro di produttività. Per le imprese non c’è ragione di aumentare gli investimenti in infrastrutture e fabbriche tradizionali, poiché non è quello che sta portando avanti le loro attività.

È necessario aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, in particolare nella ricerca. C’è la necessità di aumentare gli investimenti nell’automazione e proprietà intellettuali, riducendo l’energia e l’impronta biologica. È anche necessario mantenere l’infrastruttura di base in modo che non ci siano incidenti e non si diffondano malattie. Ma oltre a questo, a mio avviso, gli investimenti fisici richiesti nei mercati più sviluppati e anche in gran parte dei mercati emergenti, sono molto pochi.

È quindi un problema avere così tanto capitale in circolazione, se non si riesce ad allocarlo. E dal momento che non trova ‘casa’, si ferma nelle istituzioni finanziarie poiché non c’è nessun altro posto in cui possa andare. E quindi viene investito nel settore immobiliare e nella speculazione finanziaria.

E abbiamo un sacco di debiti. Come sbarazzarsene?

Il debito che è stato alimentato dovrebbe essere ridotto attraverso una qualche politica inflattiva; un provvedimento sempre più difficile da attuare, quando si dispone di tecnologia ed eccesso di leva; oppure potrebbe essere dalle banche centrali: una gran parte del debito generato, è sempre stato pacifico che non sarebbe mai stato rimborsato.

I prestiti auto garantiscono a quelle persone che non potevano permettersi una macchina, di comprarsene una; ma non credo che quei prestiti saranno mai rimborsati. I prestiti agli studenti negli Stati Uniti sono un meccanismo di sostegno dei consumi da parte del governo Usa; e nemmeno quelli saranno mai rimborsati.

Ma va bene, a patto che la palla continui a girare. Fino a quando il nuovo debito viene ripompato dentro, va bene. È come fare surf – devi tenerti in piedi per rimanere sull’onda, oppure cadi. Le persone sono preparate alle conseguenze di un default? Ovviamente no. Nessuno è disposto a perdere i propri depositi. Nessuno vuole perdere il lavoro. Nessuno vuole un crollo deflazionistico.

Articolo in inglese: ‘Creative Destruction Versus Government Fixes

Traduzione di Massimiliano Russano

 
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