Diritti umani in Cina, da più di 20 anni ci sfugge qualcosa di grosso

Di Alessandro Starnoni

Quando si parla di violazioni dei diritti umani in Cina, si citano spesso le questioni di Hong Kong, Tibet e Xinjiang. Tuttavia, sebbene queste nell’insieme rappresentino una grossa fetta delle violazioni (quelle più comunemente ricordate), rimangono pur sempre la punta dell’iceberg.

Basti pensare, ad esempio, all’allarme lanciato nell’estate dello scorso anno dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Attraverso un panel di esperti l’Onu si era detta «estremamente preoccupata» dalle accuse rivolte al regime di Pechino sul prelievo forzato di organi ai danni di minoranze come «praticanti del Falun Gong, uiguri, tibetani, musulmani e cristiani detenuti in Cina».

Gli esperti dell’Onu hanno riferito di essere in possesso di «informazioni credibili» secondo cui persone appartenenti a tali minoranze etniche o religiose possono essere arrestate in Cina senza alcuna motivazione o mandato e, una volta in carcere, «essere sottoposti con la forza» a esami del sangue, tac o ultrasuoni – rivolti esclusivamente a loro e non ad altri prigionieri – e «senza il loro consenso informato».

I risultati di tali esami, si legge nel documento ufficiale, vengono poi registrati in un database di fonti di organi di persone viventi: in breve, vite innocenti pronte per essere giustiziate non appena le loro analisi e i loro organi combaciano con quelli del richiedente.
Gli esperti dell’Onu sottolineano come questi prelievi forzati finalizzati al traffico di organi in Cina coinvolgano «professionisti del settore sanitario, tra cui chirurghi, anestesisti e altri medici specialisti».

L’Onu aveva già sollevato la questione con Pechino nel 2006-2007, a seguito delle prime indagini sull’argomento condotte dall’avvocato dei diritti umani David Matas assieme all’ex segretario di Stato canadese (per l’Asia-Pacifico) David Kilgour. Ma non ha mai ottenuto la trasparenza del regime, ad esempio sui tempi di attesa per i trapianti e sulle fonti degli organi.

David Matas e David Kilgour
L’ex segretario di stato canadese per l’Asia-Pacifico David Kilgour (R) presenta un rapporto rivisto sul prelievo forzato di organi dai praticanti del Falun Gong in Cina, mentre il co-autore del rapporto e avvocato internazionale dei diritti umani David Matas è in piedi vicino a lui, foto di archivio. (Matt Hildebrand/The Epoch Times)

Matas e Kilgour per primi nella loro inchiesta Bloody Harvest, e anche il giornalista Ethan Gutmann in seguito, così come l’organizzazione di medici contro il prelievo forzato di organi Dafoh (Doctors Against Forced Organ Harvesting), hanno scoperto prove sostanziali dimostrando come questo racket sia gestito direttamente dal governo cinese con l’aiuto degli ospedali militari.
Nello specifico, attraverso le loro indagini hanno messo in luce i brevissimi tempi di attesa per ottenere un organo in Cina: pochi giorni, quando negli altri Paesi sono necessari anche anni.

Una persecuzione contro almeno 100 milioni di persone

Dalle indagini è emerso che la fonte principale degli organi siano i praticanti del Falun Gong, una pacifica e tradizionale disciplina di meditazione cinese contro la quale Pechino, guidata all’epoca da Jiang Zemin, ha lanciato una brutale persecuzione su vasta scala dall’anno 1999 (a oggi ancora in corso, e che pare adotti ogni genere di mezzo distruttivo, dalla diffamazione mediatica delle vittime e del gruppo nel suo insieme, fino alla persecuzione fisica, per l’appunto il prelievo forzato di organi).

Pratica della Falun Dafa
Praticanti della Falun Dafa praticano in gruppo nella città di Shenyang, in Cina, nel 1998. (Minghui)

Secondo i resoconti dei siti web della disciplina, l’ex dittatore ha temuto in maniera ingiustificata di perdere il controllo sulla società cinese: il numero di meditatori aveva raggiunto in quell’anno i 100 milioni secondo stime ufficiali del regime, più dei membri iscritti al Partito. Da qui si capisce come di conseguenza il fenomeno del prelievo forzato di organi potrebbe aver assunto negli anni proporzioni ingenti.

In Cina storicamente non è mai esistito un sistema di donazioni consolidato, e dagli anni ’80 la Cina era già nota per il prelievo di organi da criminali giustiziati. Ma i numeri dei trapianti erano sempre stati molto bassi.

Tuttavia, dall’anno 2000 – proprio in coincidenza con l’inizio della sistematica persecuzione contro il Falun Gong nel Paese – si è assistito a un rapido e sostanziale aumento dei trapianti in Cina.

Gli investigatori hanno notato quindi un’enorme discrepanza tra il copioso numero ufficiale dei trapianti effettuati in Cina dopo il 2000 e quello che però era l’esiguo numero di donatori, nonché il basso numero di criminali giustiziati: «Ci sono molti più trapianti che fonti identificabili», scrivono Matas e Kilgour nel rapporto Bloody Harvest.

Parata contro la persecuzione del Falun Gong
Durante una parata a Washington del 17 luglio 2014, una donna tiene in mano la foto di un praticante del Falun Gong ucciso dalla persecuzione del regime. (Larry Dye – The Epoch Times)

Tale enorme divario, hanno concluso, si spiega solo pensando a un gran numero di prigionieri nei ‘campi di lavoro’, noti anche come ‘prigionieri di coscienza’, che costituiscono un grande bacino di organi: persone pronte per essere uccise a comando proprio nell’atto dell’estrazione degli organi, come sottolineano le indagini, per preservare la freschezza dei tessuti. Questo spiega anche i brevissimi tempi di attesa addirittura vantati dagli ospedali per ottenere gli organi.

Tutto questo è sostenuto e completato dalle testimonianze degli stessi ex detenuti fuggiti dai cosiddetti ‘campi di lavoro’ cinesi, e degli stessi medici pentiti che hanno eseguito i trapianti su ordini, nonché dalle registrazioni telefoniche tra medici cinesi e finti pazienti-investigatori che chiedevano informazioni sugli organi.

Nonostante il silenzio predominante – poiché da un lato Pechino nega o tenta di nascondere le prove, e dall’altra esistono evidenti legami economici tra la Cina e il mondo libero – il crimine è stato comunque negli anni più volte portato alla luce dalla comunità internazionale, con risoluzioni pervenute dal Congresso degli Stati Uniti e dal Parlamento europeo, fino alle azioni legali dei singoli Paesi, tra cui l’Italia, che hanno approvato leggi per impedire che i loro cittadini fossero coinvolti inavvertitamente o volontariamente nel prelievo forzato degli organi in Cina. Ma evidentemente è ancora troppo poco.

Indagini, testimonianze e dati che sono stati infine confermati da una importante sentenza del tribunale indipendente londinese China Tribunal, presieduto dal noto giudice e avvocato Geoffrey Nice Qc, esperto di genocidi e crimini contro l’umanità, che ha condotto in passato l’accusa contro l’ex dittatore jugoslavo Slobodan Milosevic.

La sentenza arrivata nel giugno 2019 dopo lunghe indagini è inequivocabile: i prigionieri di coscienza in Cina sono stati uccisi su vasta scala per i loro organi, e continuano a esserlo ancora oggi. Il tribunale ha confermato la diretta responsabilità del governo cinese e anche che la maggior parte delle vittime sono praticanti del Falun Gong. Ha quindi esortato la comunità internazionale ad agire più efficacemente. Ma sono passati già tre anni e poco sembra si sia mosso.

La stima dei numeri fornita dal China Tribunal è semplicemente spaventosa: dai primi anni 2000 a oggi sarebbero dai 60 mila ai 90 mila i trapianti di organi illegittimi eseguiti ogni anno, di cui ‘non si conosce’ la fonte. Solo una piccolissima parte di tale numero sarebbe infatti attribuibile a donatori verificabili. Ma da Pechino finora, a parte le continue negazioni, nessuna spiegazione.

 
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