Diritti umani e informazione, vietato parlare di Cina

Le domande sui diritti umani sono «irresponsabili», «piene di pregiudizi» e «totalmente inaccettabili». Questa la risposta del ministro degli Esteri cinese Wang Yi in visita in Canada il 2 giugno scorso, a un giornalista locale che poneva il problema dei diritti umani in Cina.

Evidentemente al ministro degli Esteri cinese non vanno a genio i giornalisti che lavorano. E non sorprende: nella Classifica mondiale della libertà di stampa (stilata ogni anno da Reporters Sans Frontiers) nei 180 Paesi del mondo, il Canada è al 18 esimo posto, la Cina 176 esima.

«È il popolo cinese a essere nella situazione migliore, nella posizione migliore, per poter parlare della situazione dei diritti umani» dice Wang.

In che modo il popolo cinese sia nella migliore posizione di giudizio, Wang non lo spiega. Ma si può facilmente immaginare, in un Paese in cui i mezzi di comunicazione di massa sono totalmente (direttamente e indirettamente) sotto il controllo e la censura del Partito Comunista Cinese (il temutissimo Pcc, l’unico ammesso in Cina, a cui i cinesi sono costretti fin, da piccoli, a fare solenne giuramento di fedeltà).

Sotto il sottile velo di apparente felicità di stampo occidentale creato dal Pcc negli ultimi trent’anni, si nascondono le peggiori atrocità commesse da un regime nei confronti del proprio popolo: le feroci persecuzioni contro cristiani, tibetani e Uiguri, basterebbero da sole a mettere nella giusta prospettiva lo scatto d’ira con cui il ministro degli Esteri di Pechino ha reagito alla più ovvia delle domande che avrebbe dovuto aspettarsi da un (buon) giornalista.

Ma evidentemente, per Wang, i parametri secondo su cui si giudica il bene di un popolo sono altri: «Le devo chiedere se lei capisca o no la Cina. Lei è mai stato in Cina? Lei sa che la Cina ha tolto oltre seicento milioni di persone dalla povertà? Lei sa che la Cina è riuscita a diventare oggi la seconda economia del mondo partendo da zero?». Il messaggio è chiaro: ‘diritti umani uguale soldi’.

L’avvocato dei diritti umani di Winnipeg David Matas e l’ex magistrato ed ex ministro degli Esteri del Canada David Kilgour, due canadesi nominati alla candidatura del Premio Nobel per la pace nel 2010, in Cina ci sono andati insieme per la prima volta nel 2006, per verificare quelle che al tempo erano delle ‘voci’, secondo cui una parte della popolazione cinese (circa 100 milioni di persone, stando ai numeri forniti dal governo di Pechino) era oggetto di una persecuzione senza precedenti.

Si tratta della persecuzione dei praticanti della via di coltivazione spirituale ormai conosciuta in tutto il mondo col nome di Falun Gong (o Falun Dafa).

Il perché di questa persecuzione, per un occidentale non è di facile e immediata comprensione. Al di là delle apparenti simpatie buddiste e del revival di facciata con cui il Pcc ha riesumato la figura di Confucio, infatti, la Cina comunista è da sempre un regime assolutamente ateo. Che non significa ‘laico’: il governo cinese impone – con la forza – ai suoi cittadini l’ateismo, proibendo in modo fermo e assoluto a ogni cittadino di coltivare una propria sfera religiosa o spirituale, come dimostrano sia la Rivoluzione Culturale di Mao Zedong del 1966-76, che la persecuzione del Falun Gong iniziata nel 1999 per ordine di Jiang Zemin.

IL GENOCIDIO DEI PRATICANTI DEL FALUN GONG: ARRESTI, TORTURE E PRELIEVO FORZATO DI ORGANI

Il 20 luglio 1999 l’allora capo del Partito Comunista Cinese Jiang Zemin, ha deciso che la presenza del Falun Gong in Cina non era più tollerabile: questa antichissima via di coltivazione spirituale andava estirpata. Ai praticanti veniva data una scelta: abbandonare per sempre il Falun Gong e tornare a casa, oppure il carcere (comprensivo di pestaggi, sevizie e torture).

E, nonostante le proverbiali inefficienza e corruzione del sistema cinese, la persecuzione del Falun Gong rimane oggi, dopo diciassette anni, una macchina inesorabile, e strutturata in un sistema capillare di controlli informatici a distanza e di uffici di cosiddetta ‘pubblica sicurezza’ capace di coprire ogni angolo dell’immenso territorio cinese.

Le cifre, per ovvie ragioni, non possono purtroppo essere del tutto precise, ma è senz’altro veritiero affermare che l’ordine di grandezza dei praticanti della Falun Dafa che, dopo l’arresto, hanno rifiutato di firmare l’abiura al loro credo spirituale sia di diversi milioni.
Per queste persone la prassi normale è, da diciassette anni, l’arresto immediato e la carcerazione a tempo indeterminato senza processo (che comunque servirebbe a poco, visto che gli avvocati che in Cina osano assumere la difesa dei praticanti del Falun Gong di solito fanno la stessa fine dei loro assistiti).

Non solo: dopo aver scoperto che i praticanti del Falun Gong di norma godono di ottima salute – e sempre nell’ottica secondo cui il denaro viene prima di tutto – il governo cinese ha creato (a partire dai primi anni 2000) un sistema di prelievo forzato dei loro organi vitali: i praticanti dopo l’arresto subiscono tutti gli esami necessari a determinare la compatibilità dei loro organi; i risultati vengono poi inseriti in un apposito database.
A questo punto entrano in azione alcuni ospedali cinesi specializzati in trapianti: chiunque (in Cina come nel resto del mondo) abbia bisogno di un trapianto – e possa pagare – deve solo contattare l’ospedale ‘giusto’ e comunicare il proprio quadro clinico; i medici cinesi programmeranno il trapianto e, nel giro di poche settimane, il paziente avrà un cuore, un fegato, una cornea o un rene nuovi.

Tutto molto semplice e veloce, perché non serve trovare nessun donatore: basta accedere al database dei praticanti del Falun Gong, trovare il prigioniero di coscienza compatibile e prelevargli l’organo al momento opportuno. Di solito gli interventi chirurgici per il prelievo avvengono su persone ancora in vita, così da garantire la massima ‘freschezza del prodotto’.

MACELLERIA SOCIALE

«Macelleria sociale», l’ha definita il dottor Maurizio Romani, senatore della repubblica e autore di un disegno di legge teso a impedire che pazienti italiani in lista d’attesa per un trapianto possano andare a ‘rifornirsi’ in Cina.

L’esposizione giornalistica impone un certo tipo di forma; ma d’altra parte il livello di atrocità rappresentato dal quadro in cui il governo di una nazione – che è la più popolosa e la seconda più ricca al mondo – perpetra un simile crimine, rende ogni parola inadeguata.

E se oggi è possibile riportare questa tragedia, facendo informazione in modo serio e professionale su questa orribile, cronica e sistematica violazione dei diritti umani, lo si deve in buona parte a David Kilgour e David Matas, che nella loro indagine del 2006 (nota come il ‘Matas & Kilgour Report) hanno dimostrato – è proprio il caso di dire, al di là di ogni ragionevole dubbio, considerato che si tratta di due uomini di legge dal curriculum professionale di massimo livello – i fatti su cui Epoch Times si impegna da tanti anni a informare i propri lettori in tutto il mondo.

Per approfondire: 

 
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