Cultura aziendale e famiglia, gestioni diverse in ogni Paese

Le imprese a struttura familiare esistono in tutto il mondo, ma non tutte affrontano le medesime difficoltà. Isolando alcuni aspetti culturali, due psicologi americani hanno delineato un ritratto interessante del loro funzionamento.

James Grubman, creatore dello studio di consulenza Family Wealth, e Dennis T. Jaffe, dirigente dello studio Wise Counsel, sono entrambi psicologi e coautori di numerosi libri sulle imprese familiari. Psicologi di formazione, i due medici sono oggi al fianco di famiglie e clienti fortunati: studiano le aziende familiari e i meccanismi economici e gestionali su cui si reggono. Secondo loro, ci sono tre approcci diversi nel gestire queste imprese e in un libro pubblicato lo scorso anno, Cross Cultures: How Global Families Negotiate Changes Across Generations, descrivono tali dinamiche.

L’INDIVIDUO, IL PUBBLICO E L’ONORE

All’inizio c’è il viaggio verso l’alto d’ordine economico, che si propone il successo e l’integrazione nella società. Poi c’è il viaggio trasversale che è interculturale e mira al progresso globale della famiglia. La ricerca del successo individuale è il modello incontrato più spesso: mette l’accento sulla creatività di ogni membro della famiglia, responsabilizza e valuta i risultati. Appartenere alla famiglia non vuol dire ereditare la direzione o acquisire una certa posizione.
Questa ricerca si ritrova spesso e si presenta in forma individualista, razionale e si concentra sulla dignità personale. La famiglia agisce da supporto, ma il livello di realizzazione dipende dal singolo. Questa è la cultura predominante nell’Europa del nord, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia.

Esistono dei rischi in questo approccio: alcune persone prendono iniziative che non produrranno niente, oppure ognuno si occupa solo del proprio incarico e, se l’impresa riuscirà può subire un’influenza esterna o essere ugualmente recuperata.

In Oriente, prevale la ricerca dell’armonia nella collettività: deve esistere la lealtà verso la famiglia, ma anche verso la comunità. I bambini devono avere rispetto delle tradizioni e viene quindi concessa loro l’autonomia necessaria allo sviluppo. Esistono un forte legame e dei doveri. Se una famiglia si arricchisce, lo fa in primo luogo per integrarsi e per avere un ruolo nella comunità. Questo però può ostacolare le iniziative personali: questo modello è il più vicino alla tradizione. I due tipi di modello mettono una persona in posizione di comando.

Nell’America Latina, in Africa e nell’ex Unione Sovietica, predomina la cultura dell’onore: ‘dovete avere un unico approccio, dovete essere degni di fiducia. Una persona dirige e tutti le devono lealtà’; gli altri non sono degni di fiducia, non c’è ‘sicurezza’. I figli del dirigente non possono fare quello che vogliono: lavorano nell’impresa, ma non sono indipendenti e tutto dev’essere approvato dal capo.
La cultura individualista dice: ‘sbrigatela da solo’, mentre quella pubblica predica: ‘hai un dovere verso la famiglia, in caso di bisogno’; infine quella dell’onore: ‘è meglio per te se entri in azienda, perché degli altri non puoi fidarti’.

TROVARE ARMONIA E SUCCESSO

Per i due psicologi, le famiglie sono entità molto complesse: «A ogni nuova generazione, un’impresa familiare deve far fronte a nuove difficoltà, lavorare con nuove persone» afferma Jaffe. Membri di generazioni diverse lavorano fianco a fianco.
Grubman e Jaffe distinguono inoltre numerosi criteri d’ordine culturale, economico, etnico e generazionale. Secondo loro, questi fattori possono sia rinforzare i componenti che creare conflitti; per Grubman ogni famiglia deve trovare il giusto equilibrio tra la tradizione e l’adeguamento al mondo: «Capire le peculiarità culturali è un vantaggio per i capi delle imprese familiari. Trovare un buon equilibrio fra tradizione e bisogno di adattamento porta al rispetto degli individui e del loro patrimonio»; e custodire il patrimonio di famiglia è il modo migliore per prepararsi ai cambiamenti: «La sfida di fare il consulente è saper affiancare le persone, indirizzarle verso nuove mete, dargli la voglia di conoscere. Ogni generazione ha un compito speciale da svolgere».

«Il nostro mondo si è sviluppato più rapidamente in questi ultimi vent’anni, che non nelle quaranta generazioni che hanno preceduto» dice Dennis Jaffe, non deve quindi sorprendere che vi siano nuove forme di organizzazione sociale. Infatti la cultura individualista, tipica del mondo moderno, è distante dalla cultura tradizionale occidentale: prima della Rivoluzione Industriale, le imprese erano affari di famiglia e di categorie professionali. I criteri di import-export limitavano l’attività di un’impresa a una cerchia ristretta e i contatti tra i diversi artigiani erano scarsi.

Per gli psicologi, la cultura e la tradizione sono fattori di stabilità e limitazione; l’individualismo e il suo ruolo specifico di adeguamento è un fattore paradossale che va risolto. Il dottor Jaffe ricorda quando conobbe due fratelli che dicevano che i loro figli avrebbero ognuno creato la propria attività, per evitare fratture, sostenendo che «se lavorano insieme le cose potrebbero andare male, ma se ciascuno va per conto proprio, la vitalità e il dinamismo originali saranno mantenuti». 

Secondo gli psicologi, però, queste imprese, quando hanno successo devono far fronte a nuove difficoltà a cui non sempre sono preparate, e per Jaffe bisogna capire fino a che punto i membri di una famiglia abbiano paura di riunirsi attorno a un tavolo e aprire il loro cuore: «Una persona teme quello che gli altri pensano di lui, mentre al tempo stesso fa supposizioni sugli altri».

Queste famiglie hanno spesso bisogno di un aiuto esterno, di una mano tesa che faccia ritrovare quello che per loro è naturale, perché è molto difficile realizzare un cambiamento di mentalità da soli. Le famiglie in primo luogo non sanno perché dovrebbero cambiare né come affrontare la svolta. La soluzione? Il primo passo è arrivare a parlarsi apertamente.

Articolo in francese: Culture d’entreprise et famille : différentes gestions selon les pays 

Traduzione di Francesca Saba

 

 

 
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