Cosa manca nel nostro modo di vedere la Cina e il comunismo

Immaginate questo: una prestigiosa università tedesca che offre un corso audiovisivo online per aiutare sia i tedeschi che gli stranieri a conoscere ‘il pensiero nazionalsocialista’ (vale a dire, il nazismo). Un video introduttivo, pubblicato su Youtube e collegato ai più importanti siti di media americani, mostra un sorridente professore e degli studenti invitare lo spettatore a scoprire quelli che sono stati i contributi di Adolf Hitler al patrimonio artistico e filosofico della Germania.

Naturalmente questo è impensabile e, in molti nazioni, illegale. Nessuna discussione su Hitler o sul nazismo può prescindere dall’uccisione di dodici milioni di persone durante la ‘soluzione finale’ nazista, e dai sei anni di guerra lanciata per portarla a termine. Il nazismo, con le sue visioni strazianti delle vittime nei campi di concentramento e delle camere a gas, è un qualcosa che i tedeschi e il mondo occidentale si sono impegnati all’unanimità a non dimenticare mai e a non permettere mai più.

Tuttavia, quando si tratta dell’ideologia comunista del regime cinese, sembra aver luogo un altro tipo di narrazione.

Il New York Times ha recentemente pubblicato un articolo che riguarda un corso presso l’università Tsinghua, chiamato ‘il pensiero di Mao Zedong’. In aggiunta al corso vi è un quiz di 8 domande a scelta multipla, con quesiti tratti dal contenuto del corso che è stato rinnovato dall’istituzione di Pechino. Le domande affrontano gli ampollosi e spesso vaghi fondamenti teorici dell’ideologia maoista.

L’articolo del New York Times, come lo stesso corso di Tsinghua, se da un lato ha reso chiare le reazioni poco entusiaste del pubblico al corso, dall’altro ha trascurato il contesto di terrore e di omicidio di massa – un bilancio di vite umane che rivaleggia numericamente le vittime delle due guerre mondiali messe assieme – che ha accompagnato le teorie comuniste di Mao.

I movimenti politici catastrofici come il Grande Balzo in Avanti, le violente campagne di riforma agraria e la decennale Rivoluzione Culturale, sono visti nel reportage del New York Times come ‘fame’ e ‘caos’.

In questa sorta di racconto storicamente incompleto, il Pensiero di Mao Zedong e il comunismo cinese rimangono, in generale, una curiosità, un residuo rudimentale di una Cina che è presumibilmente cresciuta al di fuori del proprio passato. Gli slogan comunisti e la propaganda appaiono come una misura per potersi salvare la faccia, come una stampella che possa permettere alla Nazione di completare il suo percorso verso un futuro migliore.

A vantaggio del regime cinese, questa isolata e decontestualizzata comprensione del dittatore e fondatore della Repubblica Popolare, assieme all’ideologia del Partito, continua a conservare e a smentire le persecuzioni in atto contro i gruppi religiosi ed etnici marginalizzati.

I 16 anni di repressione contro la disciplina spirituale del Falun Gong, per esempio, hanno mostrato tutta la gamma di metodi – tra cui il prelievo forzato di organi da decine di migliaia di prigionieri vivi – applicata dal Partito per distruggere questa pratica di meditazione, con la scusa di opporsi alla superstizione, e di sostenere la domanda comunista rivolta all’ateismo e al materialismo.

Il ritratto dell’ideologia dichiarata dal Partito come un anacronismo economico e politico, che si distacca dagli abusi storici e ancora in corso, ignora la costante rilevanza del pensiero comunista nel plasmare le motivazioni e le azioni del regime cinese, così come la natura di questo ginepraio di fronte alla vita e alla morte delle vittime.

Articolo in inglese: ‘What’s Missing in the Way We See China and Communism

 
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