Bene Biden, ma il genocidio cinese non avviene solo nello Xinjiang

Di Anders Corr

Il governo degli Stati Uniti sta emettendo nuovi avvertimenti alle imprese contro le catene di approvvigionamento che raggiungono lo Xinjiang (Turkestan orientale), in Cina, teatro di lavori forzati e genocidi. Stessa segnalazione anche per gli investitori a Hong Kong, dove le leggi sulla sicurezza nazionale di Pechino criminalizzano anche la resistenza verbale al crescente potere della Cina.

Questi avvertimenti dovrebbero smorzare l’eccessiva eccitazione a Wall Street e nella Silicon Valley per i rendimenti apparentemente alti che si possono ottenere in Cina. Tuttavia, visto l’ultimo dei crimini riprovevoli (quello del genocidio), il tentativo di mantenere gli affari in Cina concentrandosi su un sottoinsieme minore di crimini – quello del lavoro forzato e della mancanza di libertà di parola – in un sottoinsieme geografico della Cina – dello Xinjiang e di Hong Kong – è apparentemente un tentativo di mantenere gli affari con uno Stato genocida nel resto del territorio che controlla.

Questo è sbagliato. Il genocidio è sistemico per la Cina in quanto approvato dall’alto, ovvero dal regime di Xi Jinping a Pechino. Poiché la Cina è un sistema totalitario in cui lo Stato ha il controllo dell’intera economia, cercare di separare gli affari regolari in Cina dal genocidio è fuorviante e non etico. L’unico approccio rispettoso ed equo per gli uiguri, visto il genocidio loro imposto, è la totale separazione economica dalla Cina.

Le atrocità della Cina contro gli uiguri costituiscono una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, ma anche la complicità con il genocidio è una violazione, e quindi gli affari in Cina durante il genocidio sono probabilmente una violazione del diritto internazionale.

Secondo l’articolo III della Convenzione, «La complicità nel genocidio è punibile come segue». L’articolo III si applica ai «privati» così come ai governanti e ai funzionari, secondo l’articolo IV. Spetta a tutte le parti contraenti (il che include il governo degli Stati Uniti), secondo l’Articolo V, emanare una legislazione per punire le persone ritenute colpevoli dell’Articolo III, compresi quei privati ​​che sono complici nel genocidio.

Tibetani, uiguri, kazaki, hongkonghesi, mongoli meridionali, taiwanesi e attivisti democratici cinesi si uniscono per chiedere ai governi di opporsi alla soppressione della libertà, della democrazia e dei diritti umani da parte del Partito comunista cinese, di fronte alla sede delle Nazioni Unite a New York City il 1° ottobre 2020. (Samira Bouaou/The Epoch Times)

Nel 2018, lo studioso di diritto internazionale Björn Schiffbauer, dell’Università di Colonia ha scritto: «È una condizione fondamentale sia del diritto internazionale che dell’esistenza stessa dell’umanità, che qualsiasi preparazione o atto di favoreggiamento, complicità o atto stesso di commettere genocidio, debba essere fermato il prima possibile».

Le 36 pagine dell’avvertimento dell’amministrazione Biden, emesso il 13 luglio, hanno un tono forte: «Data la gravità e la portata di questi soprusi, compreso il lavoro forzato diffuso e sancito dallo Stato e le sorveglianze intrusive che si verificano nel corso del genocidio e dei crimini contro l’umanità nello Xinjiang, le imprese e gli individui che non abbandonano le catene di approvvigionamento, iniziative e/o investimenti nello Xinjiang, potrebbe correre un alto rischio di violazione della legge statunitense». Questa dichiarazione è stata approvata dai Dipartimenti di Stato, Tesoro, Commercio, Sicurezza interna, Lavoro e Ufficio del Rappresentante commerciale degli Stati Uniti.

L’avviso elenca una serie di rischi legali, tra cui «la violazione degli statuti che criminalizzano il lavoro forzato, compreso il trarre vantaggio consapevolmente dalla partecipazione a un’impresa, pur sapendo o in sconsiderata ignoranza del fatto che l’impresa si è impegnata nel lavoro forzato; violazione di sanzioni se si tratta con persone designate; violazioni del controllo delle esportazioni; e violazione del divieto di importazione di beni prodotti in tutto o in parte con il lavoro forzato o con il lavoro dei prigionieri».

La normale due diligence sui diritti umani, secondo la dichiarazione, «presenta sfide estreme» in Cina, a causa dei «crimini contro l’umanità e del genocidio in corso nello Xinjiang e dell’ambiente repressivo e non trasparente».

Secondo l’avvertimento, gli audit di terze parti sono una due diligence insufficiente da parte delle aziende, poiché i controllori, «secondo quanto riferito sono stati incarcerati, molestati, minacciati o fermati all’aeroporto. Ai controllori potrebbe essere richiesto di utilizzare un traduttore governativo che trasmetta informazioni errate o non parli nella prima lingua dei lavoratori. Non si può fare affidamento sui colloqui dei controllori con i lavoratori, data la sorveglianza pervasiva, la minaccia di detenzione e le prove del fatto che i lavoratori hanno paura di condividere informazioni accurate».

Tutte queste sfide alla due diligence e alle verifiche si applicano all’intero Paese cinese, non solo allo Xinjiang. Poiché i lavoratori del lavoro forzato (chiamiamolo come sono: schiavi) uiguri vengono trasportati in tutto il Paese, il lavoro forzato è un problema in tutta la Cina, non solo nello Xinjiang. Inoltre, l’impossibilità dei lavoratori in tutta la Cina di votare o di avere qualsiasi forma significativa di partecipazione al proprio governo, nel contesto della povertà e di una società altamente irreggimentata, può essere poco meglio della schiavitù, se non è proprio la schiavitù stessa.

Il genocidio è in corso da oltre quattro anni. Il rapporto Biden rileva che il 19 gennaio 2021 «il Segretario di Stato ha stabilito che è dal marzo 2017 che la Repubblica Popolare Cinese sta commettendo genocidi e crimini contro l’umanità, verso gli uiguri, che sono prevalentemente musulmani, e verso membri di altre minoranze etniche e religiose nello Xinjiang».

Le aziende in Cina che stavano prestando attenzione e operando secondo principi etici, se ne sono andate dalla Cina molto tempo fa, o si sono informate e non sono mai andate in Cina. Ma quelle imprese che ancora oggi rimangono in Cina sono quelle che erano non etiche fin dall’inizio. E più a lungo e più profondamente si impegnano in Cina, meno sono etiche sono.

Anders Corr ha conseguito una laurea/master in scienze politiche presso la Yale University (2001) e un dottorato in governo presso la Harvard University (2008). È preside di Corr Analytics Inc., editore del Journal of Political Risk, e ha condotto ricerche approfondite in Nord America, Europa e Asia. È autore di «The Concentration of Power» (in uscita nel 2021) e «No Trespassing» e ha curato «Great Powers, Grand Strategies».

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

Articolo in inglese: Decouple From Genocide: Biden China Warnings Miss Point

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