Storie di ordinaria persecuzione

In Cina, le pratiche di coltivazione di corpo e spirito (da sempre considerati un tutt’uno nella plurimillenaria cultura cinese) sono individuate col termine generico di ‘qigong’.

Durante i primi anni ’90, nell’ambito di una sorta di revival culturale, il regime comunista cinese promosse il qigong quale pratica adatta a ottenere il benessere fisico e a curare le malattie in modo ‘alternativo’. Un’operazione propagandistico-commerciale che vide decine di diversi qigong accomunati in ricorrenti fiere di settore.

Nel calderone di queste grandi fiere, il Falun Gong (anche noto col nome di Falun Dafa) era fra le pratiche che riscuotevano maggior successo. E anche il governo cinese (cioè a dire, il Partito Comunista Cinese) teneva in grande considerazione questa pratica, per gli evidenti benefici non solo fisici, ma anche etici e morali, che generava in chi la praticava.

L’aspetto ‘interiore’ caratteristico dei praticanti della Falun Dafa è infatti quello di ispirare le proprie vite ai valori universali di verità, compassione e tolleranza.
Nel concreto, dal punto di vista ‘sociale’ i praticanti del Falun Gong in generale sono persone particolarmente pazienti, comprensive e razionali di fronte alle normali difficoltà della vita, ed evitano il più possibile di scendere nei conflitti quotidiani, specialmente in ambiente lavorativo: fino al 1999 erano ‘famosi’ come operai, impiegati e dirigenti seri, efficienti e produttivi. Qualcosa di obiettivamente raro, specie nella Cina moderna. Erano quindi evidenti i benefici generali anche per la società cinese.

Il Falun Gong, che affonda le proprie radici in una sapienza e saggezza millenarie, è stato divulgato dal signor Li Hongzhi (originario della città di Changchun, nel nordest del Paese) a partire dal 1992.
Nel giro di soli sette anni, il successo del Falun Gong – fondato in gran parte sul passaparola – è stato senza eguali: un numero compreso fra i 70 e i 100 milioni di praticanti in tutta la Cina, secondo una stima del governo cinese stesso.

L’INIZIO DELLA PERSECUZIONE

Ma evidentemente, un dittatore comunista e, per suo stesso vanto, ateo-materialista come l’allora leader del Pcc Jiang Zemin, non poteva tollerare un così enorme ‘successo’ di una pratica spirituale.
Jiang Zemin decise quindi di eliminare, in ogni senso, il Falun Gong e tutti i suoi praticanti: arresti arbitrari, pestaggi e condanne senza processo (o dopo processo-farsa); internamenti in campi di lavoro, centri per il lavaggio del cervello, centri di tortura e campi di concentramento.

Una persecuzione i cui livelli di accanimento e crudeltà risultano inauditi e incomprensibili, sia alla luce della totale ‘innocuità’ dei praticanti della Falun Dafa, sia considerando l’enorme dispiego di forze e mezzi finanziari che comportava e comporta tutt’oggi, e la cui ‘giustificazione’ è documentata da una circolare interna al Pcc diramata da Jiang nell’estate del 1999: «È mai possibile che noi, membri del Partito Comunista, armati del marxismo e della nostra fede nel materialismo e nell’ateismo, non riusciamo a sconfiggere questo Falun Gong?».

I PERSEGUITATI: STORIE DI CHI CE L’HA FATTA E DI CHI ANCORA RISCHIA LA VITA

Come è facilmente immaginabile, diverse migliaia di praticanti della Falun Dafa sono riusciti a mettersi in salvo all’estero, ed esiste una piccola comunità di praticanti cinesi anche in Italia. Tre di loro vivono a Roma: si chiamano Zhao Lili, Li Shuqiang e Tang Yuanyan.

Shuqiang e Lili

Lili e Shuqiang arrivano da Pechino e sono marito e moglie da circa vent’anni. Lei, Lili 50 anni, è un ex ingegnere elettronico della Nortel; lui, Shuqiang ha 51 anni ed è laureato in economia con specializzazione in contabilità.

Dopo l’inizio ufficiale della persecuzione, il 20 luglio 1999, Lili viene arrestata tre volte e Shuqiang due.

La storia che ricorda Lili è la più dolorosa: nonostante non sia mai stata trasferita in carcere, è stata arrestata e trattenuta col fermo di polizia per tre volte nel 2000: la prima per 15 giorni, la seconda per tre giorni, la terza per tre mesi. E ogni volta le è stato impossibile contattare un avvocato.

Nel corso del suo terzo fermo di polizia, Lili e un’altra praticante hanno fatto lo sciopero della fame, che è però durato poco: al quarto giorno, sei guardie le immobilizzano, e infilano nel naso di Lili (e dell’altra giovane arrestata) un tubo per l’alimentazione forzata. «Una violenza dolorosissima», ricorda ancora oggi Lili; in particolare per la sua compagna di prigionia, incinta di due mesi.

Dopo un paio di mesi Lili viene liberata, e il destino finalmente l’aiuta: assunta dalla sede cinese di un’azienda di elettronica italiana (la Forem di Brescia), può – superando non poche difficoltà per ottenere il passaporto – venire in Italia per un corso di formazione di due mesi, allo scadere dei quali chiede asilo politico nel nostro Paese.

La compagna di detenzione di Lili ha invece un destino orribile: liberata insieme a lei, viene riarrestata dopo quattro mesi e costretta con la forza ad abortire.

Quello che è successo a Shuqiang, invece, è degno della trama di un film: arrestato due volte, anche lui nel 2000 (mentre la persecuzione infuriava più che mai), la prima volta è stato arrestato a casa e trattenuto in fermo di polizia per 45 giorni; la seconda è stato caricato su un furgone in piazza Tienanmen e mandato (senza processo) prima al centro detentivo, e poi al carcere di Liao Ning, per essere infine trasferito in un campo di lavoro: una fabbrica di Shenzhen, nella provincia di Canton.

Un destino duro, ma almeno Shuqiang è vivo, anche se ha rischiato grosso: tralasciando il brutale pestaggio subito all’arresto (un poliziotto, dopo averlo selvaggiamente picchiato a manganellate in testa, è sparito nel terrore di averlo ucciso, mentre era solo svenuto), Shuqiang ha rischiato di essere uno dei primi prigionieri di coscienza del Falun Gong a venire privato con la forza dei propri organi vitali e ucciso.

Nel 2000, infatti, nessuno ancora sa che i prigionieri di coscienza in Cina sono vittime di questa barbarie senza precedenti nella Storia (la famosa inchiesta di Kilgour e Matas stima che il numero dei trapianti finora eseguiti sia di almeno 1 milione e mezzo).
Quando venivano arrestati per motivi di credo spirituale, i prigionieri non fornivano le loro generalità alla polizia per paura che anche i familiari venissero colpiti; questo li trasformava in desaparecidos irrintracciabili: l’ideale per i medici-macellai che da sedici anni prelevano gli organi ai prigionieri di coscienza mentre sono ancora in vita, per poi rivenderli nell’ambito di un lucrosissimo racket internazionale.

Shuqiang invece dà le sue generalità, viene schedato viene mandato in un campo di lavoro per quasi due anni. Una volta liberato dai lavori forzati, è solo a Pechino e senza documenti validi per l’espatrio: l’Ufficio 6-10 cerca di impedire l’emissione del suo passaporto e l’ambasciata italiana non può concedere il visto per ricongiungimento familiare, perché tutti i documenti (titoli di studio, certificato di matrimonio) devono essere in italiano.

Shuqiang non parla italiano: prova a tradurli in inglese, ma il visto viene negato. Passano così diversi mesi, nei quali la polizia cinese tiene in sospeso la richiesta di passaporto, dando il tempo all’Ufficio 6-10 di intervenire: chiedono a Shuqiang la ricevuta di richiesta di passaporto in originale; l’idea è semplice: senza ricevuta, Shuqiang non può ritirare il suo passaporto.
Le procedure burocratiche del Pcc sono tipicamente contorte e niente affatto esplicite: un conto è negare il passaporto a una persona; un’altro è emettere il passaporto e rendere impossibile la consegna perché il richiedente non è più in grado di presentare la ricevuta di richiesta.
Ma Shuqiang è una persona onesta e sincera, non uno stupido: basta fare una fotocopia perfetta della ricevuta e consegnarla all’Ufficio 6-10. A quel punto la polizia sblocca il passaporto, e Shuqiang lo può ritirare consegnando la ricevuta originale.

Il resto è facile: l’ambasciata italiana, grazie a Lili, ha saputo tutto su di lui e non fa problemi: invece del visto per ricongiungimento familiare rilascia un visto turistico. Sembra finita, ma manca l’ultimo atto: all’aeroporto di Hong Kong, mentre è in fila per imbarcarsi sul volo per Roma, un poliziotto inizia a chiedere ad alta voce di uno che si chiama Li Shuqiang.
Ma Hong Kong non è Pechino: basta che Shuqiang non risponda per far desistere subito l’agente (che evidentemente non ha nessuna ‘voglia’ di controllare i documenti di tutti i presenti per scovare questo Li e arrestarlo senza nessun vero motivo).

Lili e Shuqiang si riuniscono infine a Roma nel 2003: lei, forte del proprio status di rifugiato politico, ha fatto tutto il tempo pressione sulle autorità italiane e sull’ambasciata italiana a Pechino. Lui, riuscito miracolosamente a ottenere passaporto e visto, è finalmente in Italia insieme a sua moglie, e può chiedere a sua volta asilo politico.

Lili e Shuqiang vivono da oltre dieci anni a Roma, dove lavorano come guide turistiche per le decine di migliaia di cinesi che ogni anno visitano la Città Eterna. Lili non fa più l’ingegnere e Shuqiang non scrive più bilanci societari ma qui stanno bene, e vivono senza il terrore di essere arrestati ogni momento: sanno che la polizia e i carabinieri in Italia non arrestano chi vive secondo verità, compassione e tolleranza. E, per un praticante della Falun Dafa che arriva dalla Cina, questo non è poco: è tutto.

LA STORIA DI YUNYAN 

Anche Yunyan, come Lili e Shuqiang, è una praticante della Falun Dafa e lo sono anche i suoi genitori, rimasti a Pechino.

Yunyan ha ventinove anni, e due anni fa è arrivata in Italia per studiare restauro all’università La Sapienza di Roma. Appena arrivata ha conosciuto un ragazzo di Roma poco più grande di lei, si sono innamorati e hanno deciso di sposarsi.

Nessun poliziotto di Pechino ha mai arrestato né picchiato Yunyan, ma i suoi genitori sì: sua madre, Ma Xiuyun, è stata arrestata tre volte e ha passato diversi anni in carcere. Per Yunyan – che al tempo era piccola – sono stati anni atroci, in cui ogni giorno poteva ricevere la notizia della morte della madre, che non poteva essere visitata in carcere e della quale non si sapeva nulla.

Ma Xiuyun ce l’ha fatta: ha superato la sua tremenda prova e ora è libera.
Ma non è libero il sessantunenne pensionato Tang Pingshun: il padre di Yunyan, arrestato lo scorso primo agosto dalla polizia di Pechino con l’accusa di «usare l’appartenenza a un culto non riconosciuto per infrangere la legge».
Quale sia la legge violata, non è dato di sapere.

La mancanza di senso compiuto della formulazione di questa accusa parla da sé: nessuna menzione della legge infranta e nemmeno nessun riferimento a un articolo del codice penale cinese, che ovviamente non può contenere un reato privo dell’indicazione della legge violata.

Una simile ‘schizofrenia’ non stupisce chi conosce la realtà della Cina comunista fondata da Mao Zedong; non è lo Stato cinese, infatti, ad aver arrestato il signor Tang: è il Partito Comunista Cinese. E la differenza fra i due è letteralmente un abisso.

Tang Pingshun, dopo i primi trenta giorni di fermo di polizia (standard in Cina), è stato trasferito in un posto chiamato Wang Si Ying, un famigerato centro di lavaggio del cervello a Pechino.

La notizia arriva a Yunyan dalla madre, che dal primo agosto – con evidente grave rischio per la sua stessa incolumità –  per un mese, va ogni giorno al commissariato che ha effettuato l’arresto per chiedere notizie del marito. La risposta è sempre «fermo di polizia», finché ai primi di settembre, l’agente di guardia le dice che è intervenuto l’Ufficio 6-10, noto come la Gestapo cinese. L’Ufficio 6-10 non appartiene né alle forze dell’ordine né ai servizi segreti: è una struttura fuorilegge a sé stante, intoccabile e ‘onnipotente’, creata da Jiang Zemin con lo scopo specifico di perseguitare ed eliminare tutti i praticanti del Falun Gong in Cina.

Attualmente non si hanno ulteriori notizie di Tang Pingshun: si sa solo che sta subendo il programma di «rieducazione» del Pcc, la cui atrocità da un occidentale può essere solo vagamente immaginata. Ma potrebbe anche finire ucciso: massacrato dagli ultimi aguzzini asserviti al sistema persecutorio creato da Jiang Zemin, o morire in seguito al prelievo forzato dei suoi organi.

Yunyan ora vive a Roma, dalla parte opposta del pianeta, e – ammesso che servisse a qualcosa – ovviamente non potrebbe rischiare di tornare in Cina (l’arresto immediato, forse persino all’aeroporto, sarebbe la cosa più probabile). Se Yunyan non è precipitata nella disperazione più nera, lo deve alla forza interiore che le deriva dal suo credo spirituale.

E infatti, Tang Yunyan è molto forte: non solo non passa le giornate a piangere in un angolo, ma parla con i giornali, chiede di parlare col ministro degli Esteri, telefona ai parlamentari italiani (la Commissione diritti umani del Senato si è già pronunciata in difesa del Falun Gong nel 2013) perché intervengano attraverso ogni canale disponibile.

E tutto questo Yunyan non lo fa solo per aiutare suo padre a tornare a casa: lo fa per tutte le persone in Cina che il Pcc perseguita per il solo fatto che ispirano le loro esistenze a Verità, Compassione e Tolleranza.

Per approfondire:

 
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