Le proteste di Hong Kong e la patata bollente in mano a Xi Jinping

Di Stewen W.Mosher

Alcuni giorni fa si è svolta a Hong Kong la più grande manifestazione della storia cinese. Si stima che siano scese in strada due milioni di persone, ovvero oltre un quarto della popolazione della città, che ammonta a 7,3 milioni di abitanti.

È stata una protesta di dimensioni straordinarie. Per fare un paragone, una protesta della stesse proporzioni negli Stati Uniti dovrebbe portare in strada circa 100 milioni di manifestanti.

La scintilla che ha fatto esplodere le proteste è stata una legge sull’estradizione che, qualora passasse, esporrebbe tutte le persone nel territorio di Hong Kong – inclusi i viaggiatori in transito all’aeroporto internazionale – al rischio di essere deportate in Cina ed essere processate dall’apparato giuridico controllato dal Partito Comunista Cinese.

In effetti, a scanso di equivoci, il vero bersaglio delle proteste di Hong Kong è il Partito Comunista Cinese, che sta tentando da anni di stringere il proprio controllo su una delle città più cosmopolite e libere al mondo. E in Cina lo sanno tutti.

Quando nel 2014 il regime cinese ha modificato unilateralmente il sistema elettorale della città – per riservarsi la possibilità di preselezionare i candidati alla leadership di Hong Kong – la popolazione è scesa in strada dando vita alla grande protesta di massa nota come Umbrella Revolution. Tuttavia, le modifiche sono entrate in vigore lo stesso; e il candidato favorito da Pechino, Carrie Lam, ha vinto le elezioni, come era prevedibile.

Non soddisfatto, il Pcc ha rialzato la posta nel 2017, sconfessando il trattato sino-britannico. L’accordo originale garantiva l’autonomia del governo locale fino al 2047, in accordo con il principio noto come ‘un Paese, due sistemi’. Ma quando i cittadini di Hong Kong si sono lamentati delle continue ingerenze del Pcc nella politica locale, citando l’accordo sino-britannico, un importante funzionario comunista ha respinto le accuse affermando che l’accordo avesse unicamente un «valore storico».

Di lì a poco si è verificato un evento persino più illegittimo. Cinque editori di Hong Kong sono stati rapiti nelle strade di Hong Kong e di Canton da agenti cinesi. Il loro crimine? Stavano vendendo – a Hong Kong – libri che sono banditi in Cina perché mettono in cattiva luce Xi Jinping e il Partito Comunista Cinese.

Ma la vecchia strategia del Partito Comunista Cinese di «ucciderne uno per ammonirne cento» non ha funzionato bene con gli hongkonghesi. Il rapimento dei cittadini ha, piuttosto, rafforzato la loro determinazione a opporsi a qualsiasi ulteriore riduzione della propria libertà, proprio come quella rappresentata dalla riforma della legge sull’estradizione.

I due milioni di manifestanti che sono scesi in strada appartengono a ogni strato della società, ma hanno quasi tutti una cosa in comune: discendono dai milioni di cinesi che sono riusciti a sfuggire al dominio dei comunisti alla fine degli anni ‘40 ritirandosi nella relativamente sicura colonia britannica. Hanno beneficiato del mercato libero di Hong Kong e sono stati governati da governanti che hanno sostanzialmente rispettato lo Stato di diritto; in netto contrasto con quanto è avvenuto aldilà del confine, dove regna la corrotta oligarchia comunista e un egualmente corrotto apparato giudiziario.

È chiaro dunque quale sentiero abbiano scelto gli hongkonghesi: hanno compreso che devono opporsi a qualsiasi ulteriore erosione dei propri diritti fondamentali da parte della Cina. Meno chiaro è quale sarà la risposta di Xi Jinping, che in qualche modo dovrà pur rispondere.

Dopo la dipartita degli inglesi, nel 1997, Pechino ha trasferito una guarnigione militare a Hong Kong. Ma negli ultimi 20 anni i soldati sono rimasti nelle caserme, e non sono mai stati impiegati nella gestione dei diversi disordini pubblici che si sono verificati in seguito alle ingerenze della Cina.

La Hong Kong del 2019 non è la Pechino del 1989. Al posto di un piccolo drappello di giornalisti stranieri, che potevano essere intimiditi e ‘rinchiusi’ in un unico hotel, ci sono centinaia di giornalisti che vivono in una delle città più cosmopolite del pianeta. Inoltre, ci sono decine, se non centinaia di migliaia di hongkonghesi che non esiterebbero un solo istante a postare su internet qualsiasi atrocità commessa dal Pcc.

Un massacro, sotto gli occhi del mondo intero, rappresenterebbe un colpo da cui né il Pcc, né Hong Kong, sarebbero in grado di riprendersi.

L’uso diretto della forza è da escludersi anche per un altro fattore. Gran parte della corrotta élite comunista ha trasferito i propri guadagni illeciti a Hong Kong, investendo nel settore immobiliare o in borsa. Per loro, e per la Cina in generale, Hong Kong rappresenta da tempo la gallina dalle uova d’oro.

Porre fine allo statuto speciale di Hong Kong – sia tramite un azione militare diretta, che strangolandone lentamente la sovranità – equivarrebbe proprio a uccidere la ‘gallina’. Il ruolo della città quale centro finanziario della regione giungerebbe a una fine burrascosa, la borsa e il mercato immobiliare locale crollerebbero, e Xi renderebbe i membri dell’aristocrazia comunista ancora più insoddisfatti di quanto non lo siano già.

Xi ha in effetti le mani legate di fronte a questa proteste, che gli stanno facendo perdere la faccia ogni giorno di più. Se ordinasse ai parlamentari di Hong Kong di approvare la legge sull’estradizione, la popolazione di Hong Kong erutterebbe di nuovo. Se invece chiedesse a Carrie Lam e agli altri suoi burattini di abrogare la legge, darebbe l’impressione di essere debole.

Privo di alternative valide, Xi non può far altro che guardare impotente mentre milioni dei ‘suoi’ cittadini votano in strada, non solo contro quest’ultima politica, ma contro lo stesso Partito Comunista Cinese.

Inoltre, i suoi attuali problemi con Hong Kong sono pesantemente acuiti dall’attuale stallo nella guerra dei dazi con l’America. Anche in questo caso Xi si trova di fronte a una scelta obbligata.

Se seguisse le richieste degli Stati Uniti per quanto riguarda l’equità del commercio – che includono il rispetto della proprietà privata, dello Stato di diritto, e l’istituzione di un apparato giuridico imparziale – ridurrebbe il controllo del Partito sulla società cinese.

D’altra parte, se continuasse a rifiutarsi di varare queste riforme strutturali, è certo che Trump metterà in pratica la sua minaccia di estendere i dazi a tutte le merci cinesi. Se ciò accadesse, l’intero settore delle esportazioni cinese – l’unico che opera secondo i principi di mercato e realizza effettivamente degli utili – collasserebbe. Poiché molte aziende sarebbero costrette a spostare la propria produzione in altri Paesi per evitare i dazi.

Quindi se il Partito si rifiutasse di allentare la propria stretta sul potere, l’economia cinese ne pagherebbe le conseguenze, un economia che sta già mostrando segnali di cedimento.

Qualsiasi decisione prenda nella crisi di Hong Kong o nella guerra commerciale, si creerà nuovi nemici, in un momento in cui sembra non possa permetterselo. Anche gli abitanti di altre città in Cina potrebbero scendere in strada per la libertà? Forse. Di sicuro le altre fazioni all’interno del Partito tenteranno di approfittare della debolezza di Xi per ridurre la sua influenza, se non addirittura rimuoverlo dal suo incarico.

Per quanto allettante possa sembrare l’idea di sedersi tranquilli a osservare gli sviluppi, gli Stati Uniti devono stare attenti a un’altra eventualità: che il Pcc, per distogliere l’attenzione dai suoi problemi interni, decida di dare ‘un pugno sul naso’ all’America. Potrebbe ad esempio incoraggiare il dittatore nordcoreano a fare quello che gli riesce meglio: sparare uno o due missili balistici. O potrebbe affondare qualche peschereccio filippino nel Mare Cinese Meridionale, con l’effetto collaterale di spingere gli Stati Uniti a intervenire in aiuto del suo alleato. O potrebbe addirittura, per mettere a tacere le critiche, invadere, o almeno fare finta, di invadere Taiwan.

Qualsiasi strategia adotti il Pcc, una cosa è fuori discussione: nessun regime comunista può permettersi di lasciare impunita una protesta pubblica delle proporzioni di quella di Hong Kong. Ancor più in un momento in cui la leadership del Pcc sta traballando in diverse aree.

Che il Pcc intenda o meno distruggere Hong Kong – un vibrante centro commerciale, in gran parte ancora libero – la tempesta perfetta che lo sovrasta in questo momento potrebbe essere la causa della sua distruzione.

 

Le opinioni in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

Stewen W.Mosher è presidente del Population Research Institute e autore del libro Bully of Asia: Why China’s Dream is the New Threat to World Order.

 

Articolo in inglese: Do the Hong Kong Demonstrations Possibly Mean the End of the Chinese Communist Party?

Per saperne di più:

 

 

 
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