La ‘Nuova Via della Seta’ sarà una strada a senso unico

Il leader cinese Xi Jinping dovrebbe atterrare a Roma giovedì 21 marzo. Durante la visita è prevista la firma di un memorandum di intesa sulla Nuova Via della Seta, al fianco del quale dovrebbero essere siglati oltre 50 accordi bilaterali che, secondo il vicepremier Luigi di Maio, favoriranno la ripresa dell’economia italiana.

La bozza del memorandum è un documento piuttosto vago, che sembra non stabilire clausole vincolanti per le due controparti, come ha ripetuto diverse volte anche il premier Giuseppe Conte. Tuttavia, il documento ha un valore simbolico di adesione alla Nuova Via della Seta, la mastodontica iniziativa di Pechino che prevede la costruzione di sei corridoi commerciali tra Asia, Africa, Europa e Sud America.

Le reti dei trasporti italiane, che includono ferrovie e porti, sono considerate importanti da Pechino per completare il corridoio marittimo previsto dal progetto, che dovrebbe collegare l’Europa meridionale con i porti dell’Africa Orientale, il sud-est asiatico e infine la Cina.
Il problema risiede nel fatto che la Nuova Via della Seta, nota a livello internazionale come Belt and Road, è un progetto che secondo Stati Uniti e Unione Europea non ha una natura squisitamente commerciale, ma piuttosto mira ad accrescere l’influenza politica ed economica del Partito Comunista Cinese nel mondo.

«Un conto sono degli accordi commerciali specifici, un altro conto è firmare un memorandum d’intesa su un progetto che gli Stati Uniti, e non solo, ritengono avere anche fini politici», ha dichiarato il politologo Edward Luttwak, aggiungendo che, se firmasse il memorandum, «l’Italia pagherebbe un alto costo sia politico sia diplomatico».

Dal canto suo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha già mandato un chiaro messaggio all’Italia tramite il proprio account Twitter: «Appoggiare la Nuova Via della Seta conferirà legittimità all’approccio predatorio della Cina nell’ambito degli investimenti e non porterà alcun beneficio alla popolazione italiana».

Ad ogni modo il 15 marzo il presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo un vertice con i due vicepremier, ha posto fine al dibattito, affermando: «Il memorandum con la Cina si firma, è un accordo quadro non vincolante, non è un accordo internazionale».

L’Unione Europea ha scoraggiato fortemente ai Paesi membri di condurre individualmente trattative con il Dragone in merito alla Nuova Via della Seta: «In considerazione del potere economico e dell’influenza politica sempre maggiori della Cina», il 12 marzo la Commissione Europea ha proposto nuove linee guida nella gestione dei rapporti con la Cina. Il primo punto riguarda la «cooperazione con la Cina per adempiere alle responsabilità comuni relative ai tre pilastri delle Nazioni Unite: diritti umani, pace e sicurezza, sviluppo».

Benefici commerciali per l’Italia?

Il ministro Di Maio ha accolto con entusiasmo l’esito del vertice di governo: «Oggi vince il Made in Italy», mentre il premier Conte ha definito la Nuova Via della Seta «una grande opportunità per riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina».

Secondo un articolo pubblicato dal Foglio, in ballo ci sarebbero oltre ventinove accordi istituzionali e oltre venti accordi tra imprese private o partecipate e la Cina. Non si tratta solo dei porti, ma l’accordo dovrebbe coinvolgere anche Snam, Cdp, Fincantieri, Eni, Enel, Unicredit e Banca Intesa.
Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità Portuale del Mare Adriatico orientale, ha dichiarato che «se non dovesse essere firmato il ‘grande’ accordo, probabilmente non saranno siglati nemmeno gli accordi di più piccola entità».

Sembra dunque che il governo italiano si stia apprestando a firmare il memorandum d’intesa con la Cina, un documento di accordo politico, per ricevere in cambio dal governo cinese dei benefici immediati a livello economico, che si dovrebbero concretizzare con gli oltre 50 accordi bilaterali in programma.
Se non fosse per questi accordi, i cui dettagli sono ignoti, non avrebbe alcun senso parlare di «riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina», dato che la Via della Seta non serve ad aumentare il traffico di merci verso la Cina, ma ad aumentare le esportazioni di Pechino verso il resto del mondo, oltre che la sua influenza politica.
Infatti uno dei principali obiettivi a lungo termine stabiliti da Xi Jinping è il cosiddetto Made in China 2025 (di cui il regime cinese non ha più parlato dopo l’inizio della guerra commerciale con gli Stati Uniti), un piano economico che mira a ridurre drasticamente le importazioni di merci straniere entro il 2025.

Il presidente cinese Xi Jinping parla con il primo ministro italiano Paolo Gentiloni (non nella foto) durante un incontro bilaterale presso la Diaoyutai State Guesthouse il 16 maggio 2017 a Pechino, Cina. (Foto di Wu Hong-Pool/Getty Images)

«I Paesi che fanno accordi di questo tipo con la Cina finiscono per importare più prodotti cinesi, non per esportare di più», ha dichiarato Luttwak durante un’intervista con Il Giornale, sottolineando che «i cinesi non importano dall’estero quello che possono fare in casa loro».

Per realizzare il Made in China 2025 la Cina ha bisogno di acquisire il know-how necessario, è questo uno dei motivi per cui dal 2016 le aziende cinesi hanno investito in circa 450 imprese italiane. Per il regime cinese è infatti divenuta una pratica standard, quella di acquisire le conoscenze di altre aziende (mediante legami commerciali o attacchi hacker), per poi replicarle in Cina.

Un articolo pubblicato il 13 marzo dal Blog delle Stelle, il magazine ufficiale dell’M5s, afferma per l’appunto che il movimento vuole «aiutare le nostre aziende a esportare il Made in Italy, le nostre eccellenze, il nostro know-how in un mercato che in questo momento ce lo chiede».
Tuttavia si rischia che una volta acquisito il know-how sufficiente, la Cina non abbia più alcun interesse ad importare merci italiane, che verranno prodotte in Cina con costi e prezzi inferiori.

Ad ogni modo, sia Confcommercio che Conftrasporto hanno espresso dubbi sulla paventata crescita delle esportazioni italiane, che secondo le loro stime si limiterebbe a un modesto 2 percento, e hanno dichiarato di essere già «molto preoccupati per le intese sottoscritte da importanti imprese italiane con industrie cinesi che rischiano di farci perdere know how e competitività».
Un caso potenzialmente allarmante è quello dell’azienda statale Leonardo, che secondo Euractiv è intenzionata a siglare un accordo di collaborazione con un’ancora ignota azienda cinese. Leonardo opera nell’ambito aerospaziale, della difesa e della sicurezza; produce jet militari, elicotteri e munizioni, ed è partner di lunga data dell’esercito italiano.
Per giunta Euractiv ritiene che tutte le partnership in programma siano state proposte dalla controparte cinese.

Per ridare impeto all’economia, secondo Luttwak, «l’unica ricetta che serve all’Italia è meno tasse, regole più semplici sul lavoro, finanza privata per opere pubbliche».

Investimenti sulle infrastrutture

Per completare il corridoio marittimo della Nuova Via della Seta, Pechino ha bisogno di uno sbocco vicino al cuore dell’Europa centrale: per questo è fortemente interessata ai porti di Genova e Trieste. Le trattative sono già iniziate da tempo, tuttavia i dettagli non sono ancora di dominio pubblico.

I presidenti di Confcommercio e Conftrasporto hanno scritto una lettera indirizzata al premier Giuseppe Conte e al ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Danilo Toninelli per invitare il governo alla massima prudenza in merito all’accordo Italia-Cina: «L’Italia sarebbe l’unico Paese di particolare rilevanza a siglare un’intesa, considerato che, sempre di più, l’Unione europea evidenzia il disegno egemonico sotteso a tale progetto […] Se poi dovessimo aggiungere la perdita della piena sovranità nazionale sulle infrastrutture strategiche portuali e ferroviarie, rischieremmo di pregiudicare quell’economia del mare che è fondamentale per il nostro Paese».

Anche il ministro degli Interni ha invitato alla prudenza menzionando l’acquisizione cinese del porto greco del Pireo e le conseguenze che sta avendo in termini di condizionamento e presenza cinese in Grecia. Ha poi aggiunto «Io prima di permettere a qualcuno di investire sul porto di Trieste o Genova ci penso, non una, ma cento volte».

Il porto del Pireo, gestito da un’azienda statale cinese, rappresenta uno snodo cruciale della Nuova Via della Seta marittima. Attualmente si trova sotto osservazione per via delle condizioni dei suoi lavoratori e per accuse di evasione fiscale. (Milos Bicanski/Getty Images

In merito all’intera iniziativa, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha dichiarato: «È un’opportunità se puntiamo su un’industria forte che va anche a vendere in Cina e non trasformiamo l’Europa in un continente di consumatori che comprano solo prodotti cinesi. Servono degli accorgimenti; per esempio il porto di Trieste è un asset strategico del Paese e non può essere parte di una società dove ci sono dentro altri Paesi».

Le esperienze dei Paesi che hanno già aderito alla Nuova Via della Seta

Secondo uno studio pubblicato il 4 marzo 2018 dal Center for Global Development, la Belt and Road Initiative (Nuova Via della Seta) ha trascinato intenzionalmente molti dei Paesi coinvolti nell’iniziativa in una ‘trappola del debito’, con l’obiettivo di renderli di fatto vassalli del regime comunista cinese.

La Banca degli Investimenti Cinese per le Infrastrutture (Aiib) – la stessa citata anche nel memorandum con l’Italia – ha infatti finanziato la costruzione di grandi opere infrastrutturali legate alla Nuova Via della Seta, elargendo ‘generosi’ prestiti a molti Paesi; tuttavia, in diversi casi le conseguenze sono state drammatiche.

Citando Cnbc e Cnn lo studio afferma che, tra i 68 Paesi che si sono impegnati a collaborare con il Partito Comunista Cinese, 23 si sono trovati rapidamente in uno stato di grave indebitamento. Per esempio, lo Sri Lanka a causa dell’impossibilità di onorare il debito contratto con il Pcc, è stato costretto a cedere i diritti di controllo dell’importantissimo porto di Hambantota ai cinesi già a dicembre 2017.

Una panoramica dell’impianto portuale di Ambantota, Sri Lanka, 10 febbraio 2015. (Lakruwan WanniarachchiAFP/Getty Images)

Il Financial Times ha scritto che il porto di Hambantota è costato 1,3 miliardi di dollari ed è stato costruito da un’azienda statale del Pcc. Da quando ha aperto, il bilancio del porto è stato sempre in rosso. Lo Sri Lanka quindi, non potendo in alcun modo saldare il debito, ha dovuto firmare una concessione della durata di 99 anni alla Repubblica Popolare Cinese, con evidenti ripercussioni sulla sua sovranità nazionale.

Secondo lo studio, otto nazioni (Pakistan, Gibuti, Maldive, Laos, Mongolia, Montenegro, Tagikistan e Kirghizistan) delle 23 che si sono già fortemente indebitate con Pechino, dovranno affrontare presto una crisi del debito pubblico. In particolare gli Stati che rischiano maggiormente sono quelli più piccoli e meno forti economicamente.

La condizione dell’Italia è naturalmente diversa rispetto a quella dei Paesi in via di sviluppo che sono caduti nella ‘trappola del debito’ di Pechino. L’Italia è la terza economia più importante dell’eurozona; tuttavia il Bel Paese ha già un enorme debito pubblico, il terzo più elevato al mondo.

Chi governa in Cina?

Al di là dei problemi legati agli interessi strategici e alla sicurezza nazionale, non si può prescindere dal ricordare che quella cinese è una dittatura che ancora oggi tortura, uccide e schiavizza.

Dal 1949 il territorio cinese è controllato dal Partito Comunista Cinese, che rimane il detentore esclusivo del potere politico, militare ed economico. Il Pcc ha iniziato il suo percorso di governo con la campagna di ‘riforma agraria’, nella quale sono stati sterminati almeno 5 milioni di piccoli proprietari terrieri, per poi proseguire con incessanti campagne politiche di massa che hanno causato la morte innaturale di almeno 60 milioni di persone.

Tra il 1966 e il 1976 la ‘Rivoluzione culturale’ ha fatto scempio delle opere e dei monumenti legati alla tradizione culturale, storica e religiosa del Paese, ha mandato letteralmente in fumo statue, opere calligrafiche, libri e templi millenari. In quel periodo, le ‘guardie rosse’ di Mao picchiavano a morte chiunque fosse anche solo sospettato di non essere abbastanza fedele alla linea del Partito.

Dopo la morte di Mao sono state varate una serie di riforme di apertura che hanno gradualmente migliorato la condizione economica del popolo cinese; tuttavia la natura totalitaria del regime non è cambiata. Il 4 giugno 1989 il mondo intero ne ha avuto la dimostrazione quando i carri armati sono entrati in piazza Tiananmen e hanno represso nel sangue le proteste pacifiche degli studenti che chiedevano al governo un’ apertura democratica.

Oggi, sebbene la costituzione della Repubblica Popolare Cinese garantisca (in teoria) la libertà di credo, numerosi gruppi religiosi continuano ad essere repressi. Da quasi vent’anni il Partito Comunista Cinese conduce un’atroce campagna di persecuzione contro le persone che praticano il Falun Gong, una disciplina spirituale basata sui principi universali di verità, compassione e tolleranza, che alla fine degli anni ’90 era praticata da oltre 70 milioni di cinesi. Inoltre secondo le associazioni per i diritti umani, torture e abusi nei confronti dei gruppi perseguitati sono ancora la norma in Cina. Tra i gruppi repressi ci sono i tibetani, gli uiguri e diverse confessioni cristiane; per di più sembra che la guerra della Cina contro le religioni abbia ricevuto nuovo impeto a partire da febbraio del 2018.

Le imprese commerciali sono pesantemente controllate e spesso sono statali, sebbene la proprietà privata sia almeno parzialmente ‘garantita’ dalle leggi del Paese. L’intera stampa è controllata, i cittadini vengono sorvegliati, il dissenso è represso con la violenza, l’incarcerazione e la tortura, mentre la libertà di espressione esiste solamente nelle forme approvate dal Pcc.

 
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