Chi c’è dietro i fact-checking di Facebook

Sembra proprio che i fact-checking di Facebook non siano così neutrali e indipendenti come dovrebbero. Nonostante le rassicurazioni del gigante dei social, infatti, i finanziamenti, il personale e i meccanismi di certificazione delle organizzazioni coinvolte indicano ben altra tendenza.

Facebook ha lanciato il suo servizio di fact-checking (traducibile in italiano come ‘verifica dei fatti’) negli Stati Uniti, poco dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016. Da allora, la società dichiara di aver collaborato con oltre 50 organizzazioni di fact checking sparse in tutto il mondo. Tuttavia, solo alcune tra queste sembrano occuparsi dei contenuti americani.

Il Media Research Center, un gruppo di analisi dei contenuti mediatici politicamente conservatore, ha identificato nove principali fact checker (verificatori dei fatti) che collaborano con Facebook sui contenuti americani: Reuters, Usa Today, Lead Stories, Check Your Fact, Factcheck.org, Politifact, Science Feedback, The Associated Press e Afp Fact-Check. Tra questi, unicamente Check Your Fact, di proprietà del Daily Caller, può essere considerato conservatore.

I post segnalati come falsi da questi collaboratori non solo vengono contrassegnati con un avviso e un link per il controllo dei fatti, ma vengono anche ‘limitati’ dalla piattaforma, il che significa che Facebook «riduce in modo significativo il numero di persone che li vedono», come dichiarato dalla stessa azienda sul suo sito web.

Naturalmente, i fact checking sono da tempo oggetto di controversie. Nel 2019 Facebook ha ‘limitato’ la pagina del gruppo anti-aborto Live Action dopo che due dei suoi video erano stati etichettati come ‘falsi’.

Ma in seguito si è scoperto che il fact checking era basato sulle dichiarazioni di due abortisti. E in risposta, l’Associazione americana degli ostetrici e dei ginecologi pro life ha pubblicato una lettera per precisare che i video affermavano in maniera corretta che «l’aborto non è mai necessario dal punto di vista medico».

Peraltro, ora Facebook si è imposto come uno dei principali – e senza precedenti – influencer nella corsa alle presidenziali del 2020; in particolare dopo che il suo amministratore delegato, Mark Zuckerberg, ha annunciato nuovi regolamenti legati alle elezioni, una donazione di 300 milioni di dollari verso gli uffici elettorali locali, e un’iniziativa per aiutare 4 milioni di persone a registrarsi e votare quest’anno. Per queste e altre ragioni, alcuni esperti hanno già iniziato a lanciare allarmi circa l’influenza che Facebook potrebbe avere nel processo elettorale.

Chi controlla i controllori?

Quali post vengono sottoposti alla ‘verifica dei fatti’ viene stabilito da Facebook in base a «segnali come i feedback delle persone su Facebook»; ma anche le aziende collaboratrici possono scegliere autonomamente di effettuare il fact check di qualsiasi contenuto.

Le aziende che effettuano le ‘verifiche dei fatti’ su Facebook devono essere certificate dall’International Fact-Checking Network (Rete internazionale di fact checking, in breve Ifcn). Facebook descrive l’organizzazione come apartitica, ma questa designazione non racconta esattamente tutta la storia.
L’Ifcn è stata fondata da Poynter, un ente giornalistico senza scopo di lucro, e nel 2019 era quasi interamente finanziata dal fondatore di eBay, Pierre Omidyar, uno dei maggiori finanziatori del Partito Democratico americano, nonché da Google e dal miliardario progressista George Soros. E anche la stessa Facebook era presente nella lista dei donatori.

Chi ottiene la certificazione e chi no, viene deciso dal comitato consultivo dell’Ifcn, composto da sette rappresentanti di organizzazioni di fact checking; uno dall’Africa, uno dalla Bosnia ed Erzegovina, uno dalla Spagna, uno dall’India, uno dall’America Latina e due dagli Stati Uniti.

I due americani sembrano essere gli unici ad avere esperienza nel campo delle notizie politiche statunitensi. Uno è Glenn Kessler, ex giornalista di politica estera e ora responsabile del servizio di fact-checking del Washington Post. Riguardo alla sua imparzialità, basti pensare che Kessler e il suo team hanno recentemente pubblicato un libro intitolato Donald Trump and His Assault on Truth (Donald Trump e il suo assalto alla Verità).

L’altro americano è Angie Drobnic Holan, caporedattrice di PolitiFact, di proprietà di Poynter.

Ad ogni modo, il direttore dell’Ifcn Baybars Orsek ha assicurato a Epoch Times che i membri del consiglio di amministrazione si rifiutano di votare e di pronunciarsi sulle certificazioni delle organizzazioni in cui rivestono posizioni di rilievo.
Questo significherebbe che Kessler non partecipa alla certificazione del Washington Post e Holan a quella di PolitiFact. Ma anche così, entrambi sarebbero comunque liberi di certificarsi a vicenda.

Da settembre 2018, PolitiFact ha condotto più di 1.400 controlli sui fatti (fact checking) per Facebook, e nell’84 per cento dei casi ha emesso il verdetto di ‘falso’.

Il suo più grande sponsor finanziario è il Democracy Fund di Omidyar. E i pagamenti provenienti da Facebook hanno rappresentato più del 5% delle sue entrate nel 2019, secondo quanto dichiarato dall’azienda sul suo sito web, che non specifica quale sia la somma.

Holan ha dichiarato che l’Ifcn «ha un lungo processo di candidatura in cui le organizzazioni di fact-checking devono fornire prove specifiche del rispetto di criteri oggettivi» e che le candidature sono reperibili sul sito web ufficiale.

La donna ha anche specificato in uno scambio di mail con Epoch Times che «PolitiFact ha superato quel processo ripetutamente». E ha definito gli altri membri del consiglio di amministrazione come «molto competenti sulla politica statunitense e sulle pratiche di fact checking».

Bilanciamento? Per Trump non vale

Ogni candidatura all’Ifcn viene esaminata da un ‘perito’ che dà al consiglio di amministrazione una raccomandazione sulla sua accettazione. I requisiti includono un certo livello di trasparenza finanziaria, sul personale e sulla proprietà, nonché la garanzia che «il richiedente non focalizzi indebitamente il suo controllo dei fatti su una parte o sull’altra».

L’esame delle candidature rivela che praticamente tutti i fact checker con sede in America sono stati valutati da tre persone: Michael Wagner, Margot Susca e Steve Fox.

Fox, il meno prolifico con solo cinque valutazioni all’attivo, è un ex redattore web del Washington Post. Prima di allora, era uno scrittore sportivo. Ora insegna giornalismo all’Università del Massachusetts Amherst.

Susca, ricercatrice in comunicazione presso l’American University, ha effettuato 14 valutazioni, comprese quelle per Ap, Washington Post e Lead Stories.

Lead Stories è stata lanciata nel 2015 dal mago della tecnologia belga Maarten Schenk, dal veterano della Cnn Alan Duke e da due avvocati della Florida e del Colorado. Nel 2017 ha contabilizzato spese di gestione inferiori a 50 mila dollari, ma nel 2019 ne ha registrate sette volte tante, in gran parte grazie agli oltre 460 mila dollari che Facebook gli ha corrisposto per i servizi di fact checking tra il 2018 e il 2019. L’azienda ha assunto più di una dozzina di collaboratori, circa la metà dei quali ex collaboratori della Cnn.

A gennaio, Lead Stories ha realizzato circa 150 fact checking per Facebook, quasi tre volte di più rispetto alle altre società di verifica dei fatti; secondo quanto riportato dal Media Research Center (Mrc), che ha sottolineato anche come l’organizzazione abbia controllato i contenuti di destra quattro volte di più rispetto a quelli di sinistra.

Tuttavia, nella sua valutazione del 2019 Susca ha definito Lead Stories come «pienamente conforme», affermando anche che «alcuni dei suoi lavori potrebbero costituire un modello per altri siti che stanno cercando di avviare siti di fact checking o per illustrare il lavoro di verifica dei fatti».
E per il momento la Susca non ha risposto a una richiesta di commento da parte dell’edizione americana di Epoch Times.

Wagner è professore di giornalismo all’Università del Wisconsin-Madison, e anche lui ha effettuato 14 valutazioni per la Ifcn.

Nella valutazione di quest’anno di Usa Today, Wagner ha fatto notare che «il sito si è concentrato quasi esclusivamente sulla verifica delle affermazioni repubblicane» e che «l’attuale squilibrio non è conforme alle linee guida della Ifcn». Ha comunque dato al fact checker una valutazione «parzialmente conforme» su questo punto, affermando che, poiché i repubblicani sono in carica, ci sono maggiori occasioni di effettuare verifiche su di loro, e aggiungendo anche che effettivamente il presidente ha un «curriculum davvero notevole nell’ambito di cose affermate, che non sono vere».

In maniera simile, nella sua valutazione di luglio del Washington Post, ha scritto che la testata «attualmente fa più fact checking sul presidente che su tutti gli altri».

«C’è uno squilibrio di fact checking sull’attuale presidente rispetto agli avversari del presidente per il 2020 e alle controparti del loro partito, soprattutto alla Camera dei Rappresentanti, ma questo squilibrio è più che ragionevole, data la quantità impressionante di false affermazioni fatte dall’attuale presidente», ha proseguito Wagner.

Quando gli sono stati chiesti chiarimenti in merito al suo ragionamento, Wagner ha fatto notare che attualmente il conteggio realizzato da Kessler sulle «affermazioni false o ingannevoli» da parte di Trump ha superato quota 20 mila.

«Quando una persona mente così spesso come il presidente Trump, concentrarsi sulle sue affermazioni è giustificato, a prescindere dallo squilibrio nel numero di controlli sui fatti tra Repubblicani e Democratici che potrebbe derivarne», ha scritto Wagner in una mail indirizzata all’edizione americana di Epoch Times.

Tuttavia, altri giornalisti hanno criticato il conteggio di Kessler in quanto fuorviante e parzialmente falso.

Ad esempio, Mark Hemingway, reporter veterano di RealClearInvestigations, ha scritto recentemente in un editoriale che «migliaia di dichiarazioni che il Washington Post definisce false o fuorvianti sono più propriamente considerabili come gli abituali eccessi verbali di un uomo noto per il suo poco moderato stile comunicativo».

«Inoltre, molte delle obiezioni del Washington Post alle parole di Trump sono basate su cavilli argomentativi e non sono veri ‘fact check’».

Dal canto suo invece, Wagner ha definito «stupide» questo genere di critiche.

Gli ispanici nel mirino

Il 18 settembre, la Ifcn ha annunciato un progetto di collaborazione tra 10 fact-checker e le due maggiori emittenti americane in lingua spagnola, Univision e Telemundo, «per combattere la disinformazione durante la campagna presidenziale» e «esporre la cifra record di 32 milioni di elettori latini negli Stati Uniti a informazioni accurate sulle elezioni, dal 15 settembre 2020 fino al Giorno dell’Inaugurazione nel 2021».

Lo sponsor dell’iniziativa è WhatsApp, di proprietà di Facebook.

Dei 10 fact-checker, due sono gestiti da Poynter (PolitiFact e MediaWise). Tra questi solo uno è tendenzialmente conservatore, ovvero Check Your Fact.

Per ora il direttore della Ifcn Baybars Örsek non ha risposto alle domande inviate da Epoch Times via e-mail.

Orientamento politico

I conservatori hanno accusato in diverse occasioni le società di Big Tech come Facebook, Google e Twitter di sopprimere le loro voci. Mentre le aziende hanno negato queste accuse, sostenendo che i loro sistemi sono gestiti in modo politicamente neutrale.

In realtà, sembra che una volta una di queste aziende sia andata vicino al riconoscere l’esistenza di questa problematica: nel 2019 il senatore repubblicano Josh Hawley ha dichiarato che a porte chiuse Zuckerberg aveva ammesso che la faziosità è «un problema con cui abbiamo lottato per molto tempo». E all’epoca, quando è stata contattata per un commento, Facebook non ha né smentito né confermato la presunta dichiarazione di Zuckerberg.

All’inizio di quest’anno, diversi ex moderatori di contenuti di Facebook hanno dichiarato che l’azienda ha un orientamento di sinistra nella sua politica dei contenuti.

Inoltre, alcuni moderatori sono stati ripresi da telecamere nascoste mentre ammettevano che la loro decisione di rimuovere o meno i post era legata alle proprie preferenze politiche, indipendentemente da quanto prescritto dalle direttive di Facebook.

 

Articolo in inglese: Facebook Fact-Checkers Dominated by Left-Leaning Funding, Personnel, Organizations

 
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